Cari vescovi, leggetevi i dati
L'Unità on line del 8 gennaio 2007
di Anna Laura Zanatta
I timori espressi recentemente da parte della gerarchia cattolica e da alcuni gruppi politici che il riconoscimento delle convivenze possa in qualche modo minacciare o addirittura distruggere la famiglia basata sul matrimonio sembrano infondati, alla luce dei comportamenti e degli orientamenti di opinione degli italiani. La maggior parte di loro si sposa e ritiene che il matrimonio non sia una istituzione superata, ma nel contempo accetta la convivenza di fatto, anche in mancanza di un progetto matrimoniale. Una schiacciante maggioranza dei giovani pone la famiglia al vertice della gerarchia delle cose importanti della vita, ma parimenti considera ammissibile convivere senza essere sposati. È la concezione stessa di famiglia che sta cambiando nella società italiana, così come nella società occidentale in generale.
Dunque la maggior parte delle persone accetta l'esistenza di una pluralità di forme di vita di coppia e di famiglia, d'accordo in questo con l'opinione più diffusa oggi tra i sociologi, secondo cui la famiglia fondata sul matrimonio non è più l'unica forma di vita familiare riconosciuta e ammessa nella nostra società.
L'accettazione diffusa della convivenza come forma di vita familiare è legata in buona parte all'aumento delle libere unioni nel nostro paese, dove negli ultimi vent'anni hanno assunto un peso sempre più rilevante, passando - secondo i dati dell'Istat - da 192 mila nel 1983 a 555 mila nel 2003 (dall'1,3% al 3,8% di tutte le coppie). Per ristabilire le giuste proporzioni, bisogna però chiarire che comunque in Italia le unioni libere hanno una diffusione molto modesta, se confrontata con quella della maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale, dove la quasi totalità delle prime unioni dei giovani sono convivenze ed è molto elevata la quota dei bambini che nascono fuori del matrimonio. In tutti questi paesi esiste peraltro qualche tipo di riconoscimento e regolamentazione delle unioni di fatto, che manca invece nel nostro.
I giovani mostrano una crescente propensione verso la convivenza, intesa principalmente come periodo di prova in vista del matrimonio: lo dimostra il fatto che ormai circa un quarto dei matrimoni più recenti sono preceduti da un'unione di fatto, con una crescita molto forte rispetto alle coppie di precedente formazione. Benché da noi le convivenze giovanili siano la maggioranza, tuttavia anche in Italia sta emergendo una tendenza che si è già affermata da tempo negli altri paesi, cioè quella a trasformare l'unione di fatto da preludio al matrimonio in una forma di vita duratura e alternativa alle nozze. A maggior ragione quindi - proprio perché la convivenza tende a diventare un'unione duratura - sembra opportuno il riconoscimento giuridico di alcuni diritti fondamentali, personali e patrimoniali, a quelle coppie che presentino un certo grado di stabilità, indipendentemente dai motivi che le inducono a decidere di non sposarsi.
Sembra poi ingiustificato il timore che la diffusione delle convivenze provochi un calo dei matrimoni. Può essere significativo un esempio: in Italia il tasso di nuzialità (il numero di matrimoni per mille abitanti) è più basso della media europea, pur essendo le convivenze molto meno diffuse, mentre in un paese come la Danimarca, in cui le unioni di fatto sono molto più numerose che da noi, anche il tasso di nuzialità è sensibilmente superiore al nostro.
Finora abbiamo fatto riferimento alle convivenze eterosessuali, per le quali esiste non tanto un problema di accettazione sociale, che di massima c'è, quanto di riconoscimento giuridico, che non c'è: è quindi auspicabile che venga eliminata questa sfasatura tra situazione di fatto e di diritto.
Diverso e più complicato è il caso delle unioni omosessuali, che a tutt'oggi devono fare i conti con pregiudizi e discriminazioni, benché di recente, soprattutto tra i giovani, il grado della loro accettazione stia aumentando. Come è facile comprendere, non esistono dati ufficiali sulla consistenza quantitativa di queste unioni, ma numerose ricerche ci rivelano aspetti sconosciuti e inattesi dello stile di vita delle persone omosessuali e della loro relazioni di coppia, che vanno in controtendenza rispetto agli stereotipi e alle opinioni comuni.
Innanzi tutto, gli «omosessuali moderni», come li definiscono Marzio Barbagli e Asher Colombo nella prima importante ricerca sociologica italiana su questo tema, hanno parecchi punti in comune con le coppie eterosessuali di oggi: la propensione a innamorarsi, le esigenze affettive e di sostegno reciproco, la tendenza a instaurare relazioni stabili e durature, a vivere in coppia, a desiderare dei figli, in poche parole a «fare famiglia». C'è però un aspetto in cui le coppie omosessuali, gay o lesbiche che siano, si differenziano da quelle eterosessuali: la distribuzione del lavoro familiare. Non avendo al loro interno differenze di genere, non seguono neppure quei modelli di ruolo socialmente condivisi che alla differenza di genere fanno riferimento. Quindi, come risulta da tutte le ricerche, essi non ricalcano la tradizionale divisione del lavoro tra donne e uomini, ma si distribuiscono i compiti domestici (e l'allevamento dei figli, nei contesti in cui la legge lo consente) in modo molto più ugualitario e simmetrico rispetto alle coppie eterosessuali.
Ma la mancanza di modelli di riferimento, se da un lato rende più flessibile e ugualitario lo stile di vita delle coppie omosessuali, dall'altro però può creare difficoltà, sia all'interno della coppia (maggiore incertezza e fragilità dei rapporti), sia soprattutto nelle relazioni con il più ampio contesto sociale, a causa della stigmatizzazione e dello scarso riconoscimento, come osserva la psicologa Laura Fruggeri in un suo recente libro dal titolo significativo Diverse normalità.
Si comprende così perché al centro delle rivendicazioni delle associazioni degli omosessuali vi sia nel nostro paese la richiesta di legalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso. Questo è già avvenuto nella maggior parte dei paesi europei, in diverse forme, che possono essere il matrimonio (Olanda, Belgio e Spagna) o, più frequentemente, l'unione civile (oltre ai paesi nordici come Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia, anche Francia, Germania, Lussemburgo, Portogallo, Svizzera, Ungheria). L'Italia è dunque rimasta quasi sola a non regolamentare queste unioni e non è da escludere che possa incorrere nei richiami dell'Unione europea, che già da molti anni invita gli stati membri ad adottare qualche forma di riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali. E cosa succederà quando verrà approvata la Costituzione europea, che pone tra i diritti fondamentali dei cittadini la non discriminazione per motivi sessuali e il diritto di tutti a sposarsi e a farsi una famiglia? Cerchiamo di non farci trovare ancora una volta impreparati di fronte ai grandi appuntamenti politici e culturali dell'Europa.
NOTE
docente di sociologia della famiglia all'università La Sapienza di Roma
L'Unità on line del 8 gennaio 2007
di Anna Laura Zanatta
I timori espressi recentemente da parte della gerarchia cattolica e da alcuni gruppi politici che il riconoscimento delle convivenze possa in qualche modo minacciare o addirittura distruggere la famiglia basata sul matrimonio sembrano infondati, alla luce dei comportamenti e degli orientamenti di opinione degli italiani. La maggior parte di loro si sposa e ritiene che il matrimonio non sia una istituzione superata, ma nel contempo accetta la convivenza di fatto, anche in mancanza di un progetto matrimoniale. Una schiacciante maggioranza dei giovani pone la famiglia al vertice della gerarchia delle cose importanti della vita, ma parimenti considera ammissibile convivere senza essere sposati. È la concezione stessa di famiglia che sta cambiando nella società italiana, così come nella società occidentale in generale.
Dunque la maggior parte delle persone accetta l'esistenza di una pluralità di forme di vita di coppia e di famiglia, d'accordo in questo con l'opinione più diffusa oggi tra i sociologi, secondo cui la famiglia fondata sul matrimonio non è più l'unica forma di vita familiare riconosciuta e ammessa nella nostra società.
L'accettazione diffusa della convivenza come forma di vita familiare è legata in buona parte all'aumento delle libere unioni nel nostro paese, dove negli ultimi vent'anni hanno assunto un peso sempre più rilevante, passando - secondo i dati dell'Istat - da 192 mila nel 1983 a 555 mila nel 2003 (dall'1,3% al 3,8% di tutte le coppie). Per ristabilire le giuste proporzioni, bisogna però chiarire che comunque in Italia le unioni libere hanno una diffusione molto modesta, se confrontata con quella della maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale, dove la quasi totalità delle prime unioni dei giovani sono convivenze ed è molto elevata la quota dei bambini che nascono fuori del matrimonio. In tutti questi paesi esiste peraltro qualche tipo di riconoscimento e regolamentazione delle unioni di fatto, che manca invece nel nostro.
I giovani mostrano una crescente propensione verso la convivenza, intesa principalmente come periodo di prova in vista del matrimonio: lo dimostra il fatto che ormai circa un quarto dei matrimoni più recenti sono preceduti da un'unione di fatto, con una crescita molto forte rispetto alle coppie di precedente formazione. Benché da noi le convivenze giovanili siano la maggioranza, tuttavia anche in Italia sta emergendo una tendenza che si è già affermata da tempo negli altri paesi, cioè quella a trasformare l'unione di fatto da preludio al matrimonio in una forma di vita duratura e alternativa alle nozze. A maggior ragione quindi - proprio perché la convivenza tende a diventare un'unione duratura - sembra opportuno il riconoscimento giuridico di alcuni diritti fondamentali, personali e patrimoniali, a quelle coppie che presentino un certo grado di stabilità, indipendentemente dai motivi che le inducono a decidere di non sposarsi.
Sembra poi ingiustificato il timore che la diffusione delle convivenze provochi un calo dei matrimoni. Può essere significativo un esempio: in Italia il tasso di nuzialità (il numero di matrimoni per mille abitanti) è più basso della media europea, pur essendo le convivenze molto meno diffuse, mentre in un paese come la Danimarca, in cui le unioni di fatto sono molto più numerose che da noi, anche il tasso di nuzialità è sensibilmente superiore al nostro.
Finora abbiamo fatto riferimento alle convivenze eterosessuali, per le quali esiste non tanto un problema di accettazione sociale, che di massima c'è, quanto di riconoscimento giuridico, che non c'è: è quindi auspicabile che venga eliminata questa sfasatura tra situazione di fatto e di diritto.
Diverso e più complicato è il caso delle unioni omosessuali, che a tutt'oggi devono fare i conti con pregiudizi e discriminazioni, benché di recente, soprattutto tra i giovani, il grado della loro accettazione stia aumentando. Come è facile comprendere, non esistono dati ufficiali sulla consistenza quantitativa di queste unioni, ma numerose ricerche ci rivelano aspetti sconosciuti e inattesi dello stile di vita delle persone omosessuali e della loro relazioni di coppia, che vanno in controtendenza rispetto agli stereotipi e alle opinioni comuni.
Innanzi tutto, gli «omosessuali moderni», come li definiscono Marzio Barbagli e Asher Colombo nella prima importante ricerca sociologica italiana su questo tema, hanno parecchi punti in comune con le coppie eterosessuali di oggi: la propensione a innamorarsi, le esigenze affettive e di sostegno reciproco, la tendenza a instaurare relazioni stabili e durature, a vivere in coppia, a desiderare dei figli, in poche parole a «fare famiglia». C'è però un aspetto in cui le coppie omosessuali, gay o lesbiche che siano, si differenziano da quelle eterosessuali: la distribuzione del lavoro familiare. Non avendo al loro interno differenze di genere, non seguono neppure quei modelli di ruolo socialmente condivisi che alla differenza di genere fanno riferimento. Quindi, come risulta da tutte le ricerche, essi non ricalcano la tradizionale divisione del lavoro tra donne e uomini, ma si distribuiscono i compiti domestici (e l'allevamento dei figli, nei contesti in cui la legge lo consente) in modo molto più ugualitario e simmetrico rispetto alle coppie eterosessuali.
Ma la mancanza di modelli di riferimento, se da un lato rende più flessibile e ugualitario lo stile di vita delle coppie omosessuali, dall'altro però può creare difficoltà, sia all'interno della coppia (maggiore incertezza e fragilità dei rapporti), sia soprattutto nelle relazioni con il più ampio contesto sociale, a causa della stigmatizzazione e dello scarso riconoscimento, come osserva la psicologa Laura Fruggeri in un suo recente libro dal titolo significativo Diverse normalità.
Si comprende così perché al centro delle rivendicazioni delle associazioni degli omosessuali vi sia nel nostro paese la richiesta di legalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso. Questo è già avvenuto nella maggior parte dei paesi europei, in diverse forme, che possono essere il matrimonio (Olanda, Belgio e Spagna) o, più frequentemente, l'unione civile (oltre ai paesi nordici come Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia, anche Francia, Germania, Lussemburgo, Portogallo, Svizzera, Ungheria). L'Italia è dunque rimasta quasi sola a non regolamentare queste unioni e non è da escludere che possa incorrere nei richiami dell'Unione europea, che già da molti anni invita gli stati membri ad adottare qualche forma di riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali. E cosa succederà quando verrà approvata la Costituzione europea, che pone tra i diritti fondamentali dei cittadini la non discriminazione per motivi sessuali e il diritto di tutti a sposarsi e a farsi una famiglia? Cerchiamo di non farci trovare ancora una volta impreparati di fronte ai grandi appuntamenti politici e culturali dell'Europa.
NOTE
docente di sociologia della famiglia all'università La Sapienza di Roma