Le nuove famiglie che la Chiesa non vede
La Repubblica del 24 dicembre 2007, pag. 1
di Aldo Schiavone
«Un amore che getta le basi»: è cosi che, in un saggio del 1925, da lui stesso definito «un documento (...) altamente morale», Thomas Mann descriveva l'essenza del matrimonio borghese, capace di trasformare - come egli si esprimeva -«un sogno e un'ebbrezza» in una durevole «azione umana».
Credo si possa partire da qui, da questo grande testo che riprende una dottrina anticipatrice formulata da Hegel un secolo prima, per una riflessione su cosa sia - o possa essere - la famiglia dei nostri giorni, di cui tutti abbiamo più o meno diretta esperienza, e che oggi si trova al centro — in Italia, ma non solo - di un confuso dibattito culturale e politico, carico di equivoci e di ideologia. Quando si dice famiglia, infatti, non bisogna lasciarsi ingannare dalla durata della parola (remotissima, con radici più antiche ancora del latino): essa ha indicato nel corso del tempo realtà assai diverse, che avevano ben poco in comune. La prima domanda da porsi, quando se ne invoca il nome come quello di un'istituzione ovvia e incontrovertibile, è a quale famiglia ci si riferisca, e cosa si voglia nascondere dietro la pretesa che si tratti di qualcosa di assolutamente evidente e di completamente immobile.
Il matrimonio moderno nasce da un'autentica rivoluzione: in esso l'amore ("l'amore che getta le basi", l'amore che si fa istituzione) prende per la prima volta il posto della convenienza e degli interessi - economici, sociali, politici - dei gruppi parentali cui appartenevano gli sposi, dissolvendone l'oppressione attraverso la nuova potenza dell'affettività e dei sentimenti Individuali. Per la prima volta, due elementi fino ad allora ben distinti nella storia sociale e mentale dell'Occidente - amore e famiglia - si incontravano in modo non occasionale ma organico, intrinseco, e non si sarebbero lasciati mai più, con conseguenze di enorme portata. Un aristocratico dell'antica Roma, ma anche un nobile della Firenze del Rinascimento, o un curato di campagna nella Lombardia o nella Borgogna del Seicento ne sarebbero restati sbalorditi.
La nuova fusione aveva le sue spiegazioni: le grandi concen-trazioni urbane, l'impresa capitalistica, il lavoro operaio e la concezione individualistica della persona imponevano una dimensione nucleare della famiglia che esaltava l'affettività, spinta sino alla passione, l'intimità della vita coniugale, l'immediatezza del rapporto con i figli. Prendeva forma il mondo di relazioni cui siamo abituati: ed è una comparsa recente, piena di innovazioni che non devono sorprendere.
Quel che chiamiamo "famiglia" è infatti una costruzione sociale che non ha al suo interno nulla di prestabilito in eterno. Tutto, in essa, è solo storia: una storia che finisce con l'adattare e integrare al proprio interno in modo sempre diverso le basi "naturali" che le hanno fatto finora da presupposto (sessualità, riproduzione e così via) — per non dire che anche la natura, ammesso che c'entri direttamente in questo discorso, non è nemmeno essa stessa mai immobile, e cambia a lungo andare i suoi equilibri. Solo che si tratta di movimenti - quelli dei rapporti di parentela, e a maggior ragione quelli delle loro premesse "naturali" - che si consumano molto più lentamente rispetto ai ritmi che percepiamo attraverso le nostre menti; ed è solo per questo che facciamo fatica ad accorgercene, con un equivoco culturale che ha segnato ogni civiltà umana.
E tuttavia la famiglia fondata su vinco -li di sentimento contiene un'asimmetria potenziale, che ha riempito la modernità: quella fra la reversibilità dell'amore nelle nostre esistenze che si allungano e moltiplicano le proprie stagioni - anche dell'amore «che getta le basi», e che ha saputo farsi progetto — e l'irreversibilità dell'evento che all'amore coniugale ancora stabilmente si collega: la nascita di una nuova vita.
L'elaborazione culturale e sociologica di questa asimmetria è stata la storia quotidiana dell'Occidente nell'ultimo secolo, e segnatamente nell'ultimo quarantennio. In questo sforzo, tutt'altro che concluso, è sotto gli occhi di tutti come la paternità e la maternità astrattamente tali - i puri vincoli di sangue - abbiano perso progressivamente peso, rispetto alla concreta costruzione e mantenimento di legami - affettivi e sociali -incardinati in cerchie stratificate di rapporti, dove si intrecciano, variamente combinati, le paternità e le maternità "naturali" e, quelle, per così dire, "acquisite" attraverso i nuovi matrimoni dei genitori: fino a comporre il disegno di inediti modelli familiari - famiglie fluide, potrebbero dirsi - forse difficili da definire, ma che ogni figlio di genitori separati e con nuovi partner sperimenta tutti i giorni; e molto spesso senza problemi.
Il dato che emerge in questo moltiplicarsi di nuove forme di familiarità mi sembra fuori discussione: ed è lo sbiadirsi dell'importanza del fattore puramente biologico, rispetto al rilievo determinante dell'aspetto affettivo, e della sua proiezione culturale. È, del resto, una conseguenza inevitabile per un matrimonio e una famiglia che abbiano al centro l'amore, e non la conservazione in quanto tale della struttura di parentela. Ma se famiglia e amore si intrecciano sempre di più - fino al punto da compensare attraverso nuove pratiche culturali persino l'asimmetria fra affettività e riproduzione - come si fa a non chiedersi perché il riconoscimento dell'amore non debba anche prevalere rispetto all'obbligo della diversità di genere - uomini con donne, e non anche uomini con uomini e donne con donne, se si tratta d'amore che vuole gettare basi—oggi per la prima volta socialmente possibili, e che sarebbero rese ancora più forti dalla presenza dell'istituzione? Perché quel primato del dato biologico che sta svanendo altrove nella vita familiare dovrebbe tornare a prevalere per fissare una gerarchia sempre più inattuale fra le forme d'amore? Anche Mann del resto aveva intuito il problema, come aveva capito che il rapporto "borghese" fra amore e famiglia non faceva che sviluppare un nucleo originario autenticamente cristiano. La Chiesa non dovrebbe dimenticarlo.
La Repubblica del 24 dicembre 2007, pag. 1
di Aldo Schiavone
«Un amore che getta le basi»: è cosi che, in un saggio del 1925, da lui stesso definito «un documento (...) altamente morale», Thomas Mann descriveva l'essenza del matrimonio borghese, capace di trasformare - come egli si esprimeva -«un sogno e un'ebbrezza» in una durevole «azione umana».
Credo si possa partire da qui, da questo grande testo che riprende una dottrina anticipatrice formulata da Hegel un secolo prima, per una riflessione su cosa sia - o possa essere - la famiglia dei nostri giorni, di cui tutti abbiamo più o meno diretta esperienza, e che oggi si trova al centro — in Italia, ma non solo - di un confuso dibattito culturale e politico, carico di equivoci e di ideologia. Quando si dice famiglia, infatti, non bisogna lasciarsi ingannare dalla durata della parola (remotissima, con radici più antiche ancora del latino): essa ha indicato nel corso del tempo realtà assai diverse, che avevano ben poco in comune. La prima domanda da porsi, quando se ne invoca il nome come quello di un'istituzione ovvia e incontrovertibile, è a quale famiglia ci si riferisca, e cosa si voglia nascondere dietro la pretesa che si tratti di qualcosa di assolutamente evidente e di completamente immobile.
Il matrimonio moderno nasce da un'autentica rivoluzione: in esso l'amore ("l'amore che getta le basi", l'amore che si fa istituzione) prende per la prima volta il posto della convenienza e degli interessi - economici, sociali, politici - dei gruppi parentali cui appartenevano gli sposi, dissolvendone l'oppressione attraverso la nuova potenza dell'affettività e dei sentimenti Individuali. Per la prima volta, due elementi fino ad allora ben distinti nella storia sociale e mentale dell'Occidente - amore e famiglia - si incontravano in modo non occasionale ma organico, intrinseco, e non si sarebbero lasciati mai più, con conseguenze di enorme portata. Un aristocratico dell'antica Roma, ma anche un nobile della Firenze del Rinascimento, o un curato di campagna nella Lombardia o nella Borgogna del Seicento ne sarebbero restati sbalorditi.
La nuova fusione aveva le sue spiegazioni: le grandi concen-trazioni urbane, l'impresa capitalistica, il lavoro operaio e la concezione individualistica della persona imponevano una dimensione nucleare della famiglia che esaltava l'affettività, spinta sino alla passione, l'intimità della vita coniugale, l'immediatezza del rapporto con i figli. Prendeva forma il mondo di relazioni cui siamo abituati: ed è una comparsa recente, piena di innovazioni che non devono sorprendere.
Quel che chiamiamo "famiglia" è infatti una costruzione sociale che non ha al suo interno nulla di prestabilito in eterno. Tutto, in essa, è solo storia: una storia che finisce con l'adattare e integrare al proprio interno in modo sempre diverso le basi "naturali" che le hanno fatto finora da presupposto (sessualità, riproduzione e così via) — per non dire che anche la natura, ammesso che c'entri direttamente in questo discorso, non è nemmeno essa stessa mai immobile, e cambia a lungo andare i suoi equilibri. Solo che si tratta di movimenti - quelli dei rapporti di parentela, e a maggior ragione quelli delle loro premesse "naturali" - che si consumano molto più lentamente rispetto ai ritmi che percepiamo attraverso le nostre menti; ed è solo per questo che facciamo fatica ad accorgercene, con un equivoco culturale che ha segnato ogni civiltà umana.
E tuttavia la famiglia fondata su vinco -li di sentimento contiene un'asimmetria potenziale, che ha riempito la modernità: quella fra la reversibilità dell'amore nelle nostre esistenze che si allungano e moltiplicano le proprie stagioni - anche dell'amore «che getta le basi», e che ha saputo farsi progetto — e l'irreversibilità dell'evento che all'amore coniugale ancora stabilmente si collega: la nascita di una nuova vita.
L'elaborazione culturale e sociologica di questa asimmetria è stata la storia quotidiana dell'Occidente nell'ultimo secolo, e segnatamente nell'ultimo quarantennio. In questo sforzo, tutt'altro che concluso, è sotto gli occhi di tutti come la paternità e la maternità astrattamente tali - i puri vincoli di sangue - abbiano perso progressivamente peso, rispetto alla concreta costruzione e mantenimento di legami - affettivi e sociali -incardinati in cerchie stratificate di rapporti, dove si intrecciano, variamente combinati, le paternità e le maternità "naturali" e, quelle, per così dire, "acquisite" attraverso i nuovi matrimoni dei genitori: fino a comporre il disegno di inediti modelli familiari - famiglie fluide, potrebbero dirsi - forse difficili da definire, ma che ogni figlio di genitori separati e con nuovi partner sperimenta tutti i giorni; e molto spesso senza problemi.
Il dato che emerge in questo moltiplicarsi di nuove forme di familiarità mi sembra fuori discussione: ed è lo sbiadirsi dell'importanza del fattore puramente biologico, rispetto al rilievo determinante dell'aspetto affettivo, e della sua proiezione culturale. È, del resto, una conseguenza inevitabile per un matrimonio e una famiglia che abbiano al centro l'amore, e non la conservazione in quanto tale della struttura di parentela. Ma se famiglia e amore si intrecciano sempre di più - fino al punto da compensare attraverso nuove pratiche culturali persino l'asimmetria fra affettività e riproduzione - come si fa a non chiedersi perché il riconoscimento dell'amore non debba anche prevalere rispetto all'obbligo della diversità di genere - uomini con donne, e non anche uomini con uomini e donne con donne, se si tratta d'amore che vuole gettare basi—oggi per la prima volta socialmente possibili, e che sarebbero rese ancora più forti dalla presenza dell'istituzione? Perché quel primato del dato biologico che sta svanendo altrove nella vita familiare dovrebbe tornare a prevalere per fissare una gerarchia sempre più inattuale fra le forme d'amore? Anche Mann del resto aveva intuito il problema, come aveva capito che il rapporto "borghese" fra amore e famiglia non faceva che sviluppare un nucleo originario autenticamente cristiano. La Chiesa non dovrebbe dimenticarlo.