Io sono la violenza, Dio tuo
di Jan Assmann
in “La Stampa” dell’11 ottobre 2007
Mi chiedo quale sia la funzione del tema della violenza nei testi in cui il monoteismo biblico
racconta e ricorda la propria nascita e affermazione. Attenzione: la domanda non è «perché il
monoteismo si affermò in maniera così violenta?», bensì «perché la sua affermazione venne
rappresentata e ricordata nel linguaggio della violenza?». Il problema dal quale parto non è la
violenza, ma è il linguaggio della violenza, le scene di massacri, azioni punitive, bagni di sangue,
persecuzioni, separazioni forzate all’interno di matrimoni misti e così via, con le quali il
monoteismo traccia, nella Bibbia ebraica, la storia della sua nascita e della sua affermazione. La
fuga dall’Egitto, indotta con la violenza delle piaghe inviate da Dio; ma ancor più la conquista della terra di Canaan ottenuta attraverso un conflitto sanguinoso; persino la rivelazione sul Sinai, atto fondatore della religione monoteista, di cui sono parte inscindibile la storia del vitello d’oro e le sue feroci conseguenze; e ancora il racconto della sfida del profeta Elia ai sacerdoti di Baal, che si conclude con un massacro nel quale questi vengono sgozzati (1 Re 18); il bagno di sangue che Ieu, nel suo «zelo per il Signore» (2 Re 10, 16) predispone per la famiglia reale, i dignitari di Acab e i fratelli di Acazia come pure i sacerdoti di Baal (2 Re 10); i massacri legati alla riforma di Giosia: questi e altri episodi simili nella rappresentazione biblica circondano l’etnogenesi israelita e l’introduzione del monoteismo – di fatto un unico processo – di tutti i segni possibili di violenza.
La questione del loro significato si pone poi in maniera ancora più pressante se questi episodi non
vengono ritenuti storici ma simbolici, e quindi considerati saghe e leggende con le quali una società si costruisce o ricostruisce un passato in grado di dare senso e prospettiva alle finalità e ai problemi attuali. Mi interrogo dunque sul significato di queste immagini. Perché si raccontano simili storie?
Che cosa significavano per l’autorappresentazione del gruppo che allora conviveva con esse e in
mezzo a esse, che cosa possono significare per noi oggi? Io non sostengo affatto, come invece mi
viene sempre attribuito, che il monoteismo abbia introdotto la violenza, l’odio e il concetto di
peccato in un mondo fino a quel momento pacifico. È ovvio che la violenza, l’odio e la colpa
esistevano già prima della nascita del monoteismo. Io mi limito a constatare che nei testi canonici
delle religioni monoteiste i temi della violenza, dell’odio e del peccato hanno un ruolo
preponderante in quanto assumono un significato specificamente religioso, diverso da quello delle religioni «pagane» di tipo tradizionale, dove la violenza è presente in relazione al principio politico della sovranità, non in rapporto alla questione divina e dove essa è una questione di potere, non di verità.
Da che parte iniziare? Direi di metterci in primo luogo d’accordo su quel che vogliamo intendere
per monoteismo. Il monoteismo si presenta nella storia in due sembianze. La prima si può ridurre alla formula che dice: «tutti gli dèi sono un unico dio»; la seconda alla formula che recita: «nessun altro dio all’infuori di Dio!». La prima forma, presente nei testi egizi, babilonesi, indiani e in quelli dell’antichità greco-romana, la chiameremo «monoteismo inclusivo». Come si espresse una volta Cliver S. Lewis, esso rappresenta non il contrario del politeismo, bensì il suo stadio maturo. Tutte le religioni politeistiche conducono da ultimo alla prospettiva che tutti gli dèi siano uno.
La seconda formula è presente innanzitutto nei testi di Echnaton di Amarna, del 1350 a.C. circa, e poi naturalmente, in maniera massiccia, nel monoteismo ebraico, cristiano e islamico. Questa
forma, a cui Lewis non aveva pensato, potremmo definirla «monoteismo esclusivo». Essa non nasce dall’evoluzione del politeismo, ma vi si oppone come una rivoluzione. Nell’ambito del nostro tema ci interessa il monoteismo esclusivo e rivoluzionario, l’unico che parli il linguaggio della violenza.
di Jan Assmann
in “La Stampa” dell’11 ottobre 2007
Mi chiedo quale sia la funzione del tema della violenza nei testi in cui il monoteismo biblico
racconta e ricorda la propria nascita e affermazione. Attenzione: la domanda non è «perché il
monoteismo si affermò in maniera così violenta?», bensì «perché la sua affermazione venne
rappresentata e ricordata nel linguaggio della violenza?». Il problema dal quale parto non è la
violenza, ma è il linguaggio della violenza, le scene di massacri, azioni punitive, bagni di sangue,
persecuzioni, separazioni forzate all’interno di matrimoni misti e così via, con le quali il
monoteismo traccia, nella Bibbia ebraica, la storia della sua nascita e della sua affermazione. La
fuga dall’Egitto, indotta con la violenza delle piaghe inviate da Dio; ma ancor più la conquista della terra di Canaan ottenuta attraverso un conflitto sanguinoso; persino la rivelazione sul Sinai, atto fondatore della religione monoteista, di cui sono parte inscindibile la storia del vitello d’oro e le sue feroci conseguenze; e ancora il racconto della sfida del profeta Elia ai sacerdoti di Baal, che si conclude con un massacro nel quale questi vengono sgozzati (1 Re 18); il bagno di sangue che Ieu, nel suo «zelo per il Signore» (2 Re 10, 16) predispone per la famiglia reale, i dignitari di Acab e i fratelli di Acazia come pure i sacerdoti di Baal (2 Re 10); i massacri legati alla riforma di Giosia: questi e altri episodi simili nella rappresentazione biblica circondano l’etnogenesi israelita e l’introduzione del monoteismo – di fatto un unico processo – di tutti i segni possibili di violenza.
La questione del loro significato si pone poi in maniera ancora più pressante se questi episodi non
vengono ritenuti storici ma simbolici, e quindi considerati saghe e leggende con le quali una società si costruisce o ricostruisce un passato in grado di dare senso e prospettiva alle finalità e ai problemi attuali. Mi interrogo dunque sul significato di queste immagini. Perché si raccontano simili storie?
Che cosa significavano per l’autorappresentazione del gruppo che allora conviveva con esse e in
mezzo a esse, che cosa possono significare per noi oggi? Io non sostengo affatto, come invece mi
viene sempre attribuito, che il monoteismo abbia introdotto la violenza, l’odio e il concetto di
peccato in un mondo fino a quel momento pacifico. È ovvio che la violenza, l’odio e la colpa
esistevano già prima della nascita del monoteismo. Io mi limito a constatare che nei testi canonici
delle religioni monoteiste i temi della violenza, dell’odio e del peccato hanno un ruolo
preponderante in quanto assumono un significato specificamente religioso, diverso da quello delle religioni «pagane» di tipo tradizionale, dove la violenza è presente in relazione al principio politico della sovranità, non in rapporto alla questione divina e dove essa è una questione di potere, non di verità.
Da che parte iniziare? Direi di metterci in primo luogo d’accordo su quel che vogliamo intendere
per monoteismo. Il monoteismo si presenta nella storia in due sembianze. La prima si può ridurre alla formula che dice: «tutti gli dèi sono un unico dio»; la seconda alla formula che recita: «nessun altro dio all’infuori di Dio!». La prima forma, presente nei testi egizi, babilonesi, indiani e in quelli dell’antichità greco-romana, la chiameremo «monoteismo inclusivo». Come si espresse una volta Cliver S. Lewis, esso rappresenta non il contrario del politeismo, bensì il suo stadio maturo. Tutte le religioni politeistiche conducono da ultimo alla prospettiva che tutti gli dèi siano uno.
La seconda formula è presente innanzitutto nei testi di Echnaton di Amarna, del 1350 a.C. circa, e poi naturalmente, in maniera massiccia, nel monoteismo ebraico, cristiano e islamico. Questa
forma, a cui Lewis non aveva pensato, potremmo definirla «monoteismo esclusivo». Essa non nasce dall’evoluzione del politeismo, ma vi si oppone come una rivoluzione. Nell’ambito del nostro tema ci interessa il monoteismo esclusivo e rivoluzionario, l’unico che parli il linguaggio della violenza.