domenica 23 dicembre 2007

Essere padroni della propria vita

Essere padroni della propria vita

Il Mattino del 2 marzo 2007, pag. 1

di Ignazio Marino

Il progresso della scienza ha radicalmente modificato il modo di concepire la cura, la sanità e il rapporto medico-paziente. In ambito sanitario i progressi sono stati velocissimi. Ricordo sempre con grande stupore che quando io ero studente, circa trent'anni fa, il solo modo di diagnosticare un tumore era la laparotomia esplorativa, un nome tanto sofisticato per definire un intervento chirurgico che consisteva sostanzialmente nell’aprire la pancia e guardare al suo interno.



Non esistevano l'ecografia, la tac, la risonan­za e non esistevano neanche interventi tera­peutici veramente efficaci per guarire malat­tie mortali come l'infarto. Ancora negli anni Settanta in caso di infarto si applicava una flebo, si teneva sotto controllo l'elettrocar­diogramma e si lasciava il paziente in un letto sperando che si riprendesse. Oggi in molte strutture ospedaliere, grazie all'emodi­namica, cioè all'introduzione di particolari liquidi nei vasi sanguigni, è possibile vedere, nel vero senso della parola, la malattia. Si possono individuare i punti esatti in cui le coronarie sono chiuse e, nel giro di un paio d'ore, introdurre nei vasi danneggiati dei tubicini di materiale plastico che risolvono il problema e il paziente in meno di tre giorni può tornare alla sua: vita di sempre.



Val la pena riflettere sulle ragioni che hanno indotto scienziati, medici, ricercatori ad impegnarsi nello studio di sistemi tera­peutici sempre più efficaci e raffinati. Dubi­to che queste innovazioni siano state realiz­zate esclusivamente per mantenere un cor­po ossigenato e per prolungare una vita meramente biologica priva della speranza di tornare alla pienezza della vita precedente e alla integrità intellettiva perduta a causa di una grave malattia o un incidente. È chiaro che anche per quel che riguarda i macchinari che aiutano, o sostituiscono, la respirazio­ne o l'alimentazione lo scopo non è quello di prolungare a oltranza una vita biologica, ma di consentire di mantenere in vita il corpo per quelle ore, quei giorni, quelle settimane necessari a restituire il paziente ad una vita piena. Ascolto sempre con grande disagio, e anche con frustrazione, chi sostiene che i progressi della scienza debbano essere utiliz­zati per prolungare la vita in qualunque condizione e che ogni battito di cuore in più sia una vittoria: sono idee aberranti.



Il dibattito su questi temi c'è stato in rutti i paesi del mondo ma il nostro sconta un grande ritardo. Un dibattito acceso come quello che abbiamo avuto qui pochi mesi fa sul caso di Piergiorgio Welby, per esempio, negli Stati Uniti ha avuto luogo nel giugno del 1976, trent'anni fa. La vicenda che fece discutere molto fu quello di una ragazza, Karen Quinlan, che a seguito di un grave incidente automobilistico entrò in uno stato di coma vegetativo per­manente. Sia la famiglia e che i medici riteneva­no che la cosa più giusta da fare per rispettare Ka­ren fosse interrompere le terapie ma nel 1976 gli Stati Uniti si trovavano esattamente nella stessa situazione in cui ci troviamo noi oggi, con un vuoto legislativo che impediva di sospendere le terapie. Allora intervenne la Corte del New Jersey che consentì la sospen­sione delle cure. Dopo qualche anno, e altri casi drammatici che costrinsero ad un'ulte­riore riflessione, sì arrivò ad una legge federa­le che ormai da diciassette armi consente di esprimere preventivamente il proprio con­senso o meno ai vari tipi di terapie.



Se ci si pensa bene il testamento biologi­co non è che la logica conseguenza di una procedura ormai entrata nella nostra realtà quotidiana che è il cosiddetto consenso informato. Nessun medico si sognerebbe di prendere un paziente e di sottoporlo ad un qualunque esame, anche una semplice ga­stroscopia, senza chiedere la sua autorizza­zione. Al paziente vanno anche spiegati gli eventuali rischi e complicanze di una proce­dura diagnostica, di una terapia o di un intervento chirurgico. Quel che si chiede con una nuova legge è di colmare il vuoto normativo che riguarda chi non è più in grado di comunicare la propria volontà, offrendo la possibilità a chi lo desidera di esprimere per iscritto in un momento di serenità a quali terapie da il suo consenso e a quali no.



Per qualche motivo incomprensìbile c'è qualcuno che alimenta intenzionalmente confusione tra i concetti di accanimento terapeutico, rinuncia all'accanimento tera­peutico, eutanasia e diritto alla scelta delle terapie. Quest'ultimo è scritto molto chiara­mente nell'articolo 32 della nostra Costitu­zione. Nelle ultime settimane della sua vita Piergiorgio Welby si era rivolto al tribunale per chiedere che gli fosse concesso il diritto di interrompere,le terapie e la sentenza del magistrato per un verso riconosceva il dirit­to sancito dall'articolo 32 della Costituzione, per l'altro sosteneva che quel diritto non fosse direttamente applicabile ma che fosse necessaria una ulteriore norma legislativa.



Io non sono un giurista ma so che l'articolo 32 è scritto con una lungimiranza straordina­ria e riesce ad essere, pur nella grande sintesi, molto preciso. La Costituzione stabi­lisce infatti che nessuno possa essere obbli­gato a sottoporsi a terapie mediche, se non per disposizione di legge a meno che non lo impongano generali ragioni di sicurezza a tutela di tutti i cittadini, testualmente: «Nes­suno può essere obbligato ad un determina­to trattamento sanitario se non per disposi­zioni di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto per la persona umana». Se qualcuno, ad esempio, contraesse un morbo pericolosissimo e infet­tivo, che si trasmette, poniamo, con la tosse, in questo caso lo Stato potrebbe intervenire. Non dobbiamo dimenticare peraltro che l'idea del consenso informato nasce dal dibattito che si accese a Norimberga sui crimini nazisti: fu allora che si affermò con forza l'idea che una terapia non potesse essere imposta ma soltanto scelta. Ecco perché il testamento biologico, figlio legitti­mo del consenso informato, non può essere confuso con l'eutanasia. Chi mette insieme le due cose crea una confusione artificiosa: nei fatti è chiaro che non c'è alcuna differen­za logica tra la sospensione di una terapia in atto e il rifiuto di una terapia ancora da iniziare, come successe nel caso di quella donna che qualche anno fa rifiutò l'amputa­zione di un arto, operazione che avrebbe potuto salvarle la vita.



Negli ultimi mesi dello scorso anno, pro­prio mentre si discuteva del caso Welby, un sacerdote di Corno chiese al suo vescovo, monsignor Maggiolini, di poter interrompe­re l'emodialisi che ormai faceva da molti anni e che lo teneva in vita. L'argomento del sacerdote era semplicemente che voleva accettare la fine naturale della sua vita. Il vescovo si disse d'accordo con lui. E che differenza c'è tra l'interrompere un tratta­mento di emodialisi e sospendere la ventila­zione artificiale? Forse solo che nel primo caso la morte interviene dopo pochi giorni e nel secondo in poche de­cine di minuti? L'etica non può essere una que­stione di ore.



Anche nel mondo cat­tolico, però, vanno distinte le diverse posizio­ni. Qualche settimana fa l'Avvenire ha pub­blicato un articolo in cui si sosteneva che una legge sul testamento biologico è perico­losa. Nello stesso giorno sul Sole-24 Ore il cardinal Martini affermava con chiarezza che invece una legge è necessaria. Cito un passo di quel 'intervista: «La crescente capa­cità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un tempo impensabili. Senz'alerò il progresso medico è assai positivo, ma nello stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richie­dono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona». Altrettanto chiara­mente si legge nel catechismo della Chiesa cattolica, scritto da Ratzinger: «L'interruzio­ne di procedure mediche pericolose e straor­dinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte, si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente se ne ha la compe­tenza e la capacità, o altrimenti da coloro che ne hanno legalmente il diritto rispettan­do sempre la ragionevole volontà del pazien­te». Per quel che mi riguarda, queste parole potrebbero anche costituire l'articolo unico della legge sul testamento biologico perché riconoscono senza ambiguità sia il diritto del paziente di scegliere le cure sia la possibi­lità di affidare la decisione alla famiglia quando il paziente non sia più in grado di farlo.



Un altro concetto sul quale si creano spesso fraintendimenti è il concetto di acca­nimento terapeutico. L'accanimento tera­peutico non può essere definito da una legge ma è solo il paziente stesso che può stabilire quando le cure si trasformano in mutile e doloroso accanimento: ciò che è accanimen­to terapeutico per me può essere considera­to come un giusto tentativo di cura da qualcun altro. È giusto dare la possibilità a chi intende servirsi di tutti gli strumenti che la scienza e la tecnica gli mettono a disposi­zione di farlo. Ma è altrettanto giusto consen­tire a chi non vuole più servirsene di sospen­dere ogni trattamento. Qualche settimana fa ho avuto modo di mcontrare per la prima volta 0 padre di Eluana Englaro, una ragazza che si trova in stato vegetativo permanente da quindici anni. Dal momento dell'inciden­te non ha contatti di nessun tipo con la realtà estema, viene nutrita e idratata artificial­mente, il suo intestino viene svuotato tre volte a settimana, le vengono somministrati farmaci contro l'epilessia perché, avendo subito un trauma cranico, deve essere protet­ta da eventuali crisi epilettiche, e farmaci anticoagulanti per evitare embolie, altamente probabili vista la continua posizione supi­na, ha ricevuto più volte terapie per infezioni alle vie urinarie e respiratorie, anche queste dovute all'immobilità prolungata per anni. Per le strane coincidenze della vita, Eluana aveva un amico che si era trovato in una situazione simile e aveva espresso in varie occasioni ai familiari e agli amici che lei non avrebbe mai voluto essere mantenuta in quelle condizioni. Ecco, io credo che sia gravissimo che lo Stato non sia in grado di dare risposte a casi del genere.


Un'indagine Eurispes diffusa nei giorni in cui più caldo era il dibattito su Welby - e che è stata quasi ignorata o nei migliore dei casi sottovalutata dai nostri media - ha rivelato che l'86 per cento degli italiani ha una idea molto chiara e precisa di cosa sia il testamento biologico e desidera una legge che consenta di esprimere i propri desideri in materia di trattamenti sanitari quando si è ancora in grado di farlo. Sono abbastanza fiducioso che alla fine riusciremo ad avere una legge. Attualmente ci sono otto disegni di legge in commissione Sanità e credo che nel mese di marzo inizieremo la discussione articolo per articolo. Il dibattito è aperto.

NOTE

Il testo - «Padroni della propria vita» - è tratto dall'«Almanacco di Scienza di MicroMega» dedicato al rapporto fra scienza e fede che uscirà oggi.