Storiche ingerenze
L'Unità on line del 14 febbraio 2007
di Vittorio Emiliani
Siamo un Paese a laicità limitata? In effetti, la presenza del papa a Roma ha sempre condizionato in modo assai più stringente che altrove la politica interna, anche più che nella (una volta) cattolicissima Spagna. Nei giorni scorsi si sono spesso rievocati il «Non possumus» e il «Non expedit» (1874) papali che tanto a lungo hanno tenuto lontani i cattolici dall'impegno democratico.
E li hanno tenuti lontani proprio nei decenni di costruzione dello Stato unitario. Oppure si è rievocata la continua commistione fra fede e politica praticata da papa Pacelli dopo la nascita della Repubblica italiana. Per concludere che non c'è molto di nuovo in tal senso sotto il sole di Roma.
Certo, erano anni che non sentivamo così pressante, quotidiano, martellante l'intervento vaticano nelle vicende di casa nostra. Troppo facile rispondere a questo allarme che la Chiesa cattolica ha sempre agito così, andando, anche in tempi recenti, ben al di là della riconosciuta libertà di richiamare i fedeli ai principii fondamentali della fede. Fu così, certamente, durante il papato di Pio XII che, ossessionato, fin dagli anni del primo dopoguerra in cui era stato Nunzio in Germania, dall'incombente pericoloso «rosso», concorse potentemente ad alzare con tutte le forze del collateralismo cattolico la «diga al comunismo». Facilitato in ciò anche dalla sciagurata scelta (più di Nenni che di Togliatti, in verità) del Fronte Popolare con un'unica lista. Il papa divenne quindi uno dei protagonisti del trionfo democristiano del 18 aprile 1948, assieme alle parrocchie (ragazzino, ricordo bene i cappellani e i parroci direttamente impegnati in campagna elettorale), ai Comitati civici, all'Azione cattolica, alla Fuci, alla Coldiretti e alla Dc naturalmente. La quale tuttavia era nata come «partito dei cattolici» (e non cattolico), quindi con un impianto laico, e svolse anche allora, con Alcide De Gasperi, un ruolo fondamentale, oggi ampiamente riconosciuto, di mediazione politica a tutto campo. Quando infatti, nel 1952, il Vaticano pretese, purtroppo con un don Luigi Sturzo invecchiato e lontano dalle impostazioni originarie, di piegare la Dc ad un listone con la destra neofascista alle comunali di Roma, la risposta del partito fu negativa e la diede lo stesso De Gasperi. Il quale, del resto, già nel '48, pur avendo la maggioranza assoluta dei seggi in uno dei due rami del Parlamento, volle dare vita a governi di coalizione coi tre partiti laici, Psdi, Pri e Pli.
Gli anni '50 furono anni difficili per il laicismo in Italia, la presenza della Chiesa era capillare e spesso arcaica, la censura cinematografica e teatrale era occhiuta, a volte asfissiante, socialisti e comunisti risultavano ancora scomunicati, nell'agosto del 1956 il vescovo di Prato, monsignor Pietro Fiordelli, bollò in una lettera pubblica al parroco due fedeli uniti soltanto civilmente come «pubblici peccatori e concubini» escludendoli dai riti e dai sacramenti. Fu uno scandalo clamoroso. Ma ve ne fu un altro all'incontrario allorché su querela dello sposo, Mauro Bellandi, il vescovo pratese venne condannato, sia pure ad una ammenda di 40.000 lire, e vi fu chi ne prese le difese, fra cui il Corriere della Sera. Eppure la Dc coltivava da qualche anno un dialogo coi socialisti preparando la cosiddetta «apertura a sinistra». Al Congresso del Psi di Venezia del 1957 si verificò un fatto del tutto insolito e inatteso: il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Roncalli, rivolse infatti ai congressisti un manifesto di saluto che stupì. Poco tempo prima egli aveva duramente condannato una possibile intesa veneta fra Dc e Psi provocando la fine del giornale democristiano che l'aveva sostenuta, Il Popolo del Veneto. Era un primo segnale di apertura al dialogo quel manifesto? Lo era. Tant'è che Roma intervenne subito perché il patriarca ritrattasse. Come avvenne.
Del resto, ancora nel 1959, il gesuita padre Antonio Messineo sosteneva su Civiltà cattolica che l'apertura a sinistra «urta contro un preciso e insuperabile divieto della morale», ammissibile soltanto come «scelta del male minore per evitare il male maggiore». Da escludersi però in caso di accordo col Psi, partito di tradizione, oltre tutto, orgogliosamente laica. Come ben sottolinea Giuseppe Tamburrano nel suo volume su Cronaca e storia del centrosinistra (BUR, 1990), il coro della stampa cattolica - oltre che di quella confindustriale - contro possibili intese fra Dc e Psi era presso che unanime e lo stesso papa Giovanni XXIII, almeno prima del 1960, nei primi due anni di pontificato, «ruppe con l'indirizzo pacelliano (...) con molta prudenza e direi lentezza». Mentre le gerarchie si mantenevano del tutto allineate alle vecchie posizioni, a cominciare dallo stesso «amletico cardinale Montini» (la definizione, privata, è dello stesso Roncalli) il quale, in materia, fu molto reciso nel ribadire la sua conformità «ai ripetuti avvertimenti della sede apostolica». La strategia di Giovanni XXIII mutò in modo netto con l'enciclica «Mater et Magistra» in cui ai cattolici venne riconosciuta una concreta autonomia in politica e con la susseguente «Pacem in terris», enciclica sociale, economica, definita «keynesiana» dagli osservatori anglosassoni. L'apertura del Concilio Vaticano II esigeva, del resto, la rivalutazione del ruolo pastorale della Chiesa e dei suoi vescovi. E tuttavia la parte più conservatrice delle gerarchie si espresse in modo pesante (il cardinale Ottaviani parlò di «vergognoso baratto») quando la Dc decise l'alleanza coi socialisti. Ma al timone c'era Aldo Moro il quale poteva assicurare all'interno e all'esterno che «l'autonomia è la nostra assunzione di responsabilità (...) morale e politica».
Il cammino di quel primo centrosinistra sarebbe stato fecondo e insieme assai travagliato, col drammatico luglio 1964, dove peraltro la Chiesa non ebbe ruolo primario, lo ebbero le forze economiche tese ad indebolire (come accadde) il riformismo del centrosinistra, in materia di politica economica e di urbanistica. Con un sindacato, la Cgil, che, dal lato opposto, all'epoca respingeva la proposta del ministro socialista Antonio Giolitti di «moderare» al 12 per cento le rivendicazioni salariali. Certo, la Chiesa non poteva vedere con favore la riforma sanitaria che potenziava e modernizzava strutture pubbliche subalterne da secoli alla rete privata e quindi anche religiosa. Analogo discorso valeva per la scuola pubblica rispetto a quella confessionale. Fu tuttavia il finanziamento statale, preteso dalle forze cattoliche per le scuole materne, per lo più religiose, a creare «l'incidente» sul quale si ebbe la tormentata e decisiva crisi di governo del 1964.
Durante il pontificato di Paolo VI, papa problematico, inquieto, colto, le occasioni di grave frizione furono date soprattutto dalla legislazione sulla famiglia e in particolare dalla legge sul divorzio proposta da un liberale, Antonio Baslini, e da un socialista, Loris Fortuna, quest'ultimo anche con tessera radicale, sospinti più dalla pubblica opinione che dai partiti (radicali a parte). Essa passò in Parlamento nel dicembre del 1970 fra polemiche molto accese. La Democrazia Cristiana pensò a lungo di poterla modificare agitando lo spauracchio del referendum abrogativo e anzi gettandolo più volte sul tavolo delle trattative sia per il governo che per la presidenza della Repubblica. Il Pci temeva il referendum, allarmato da una irreversibile rottura dei rapporto coi cattolici. Poi, quando Amintore Fanfani, sospinto dalle gerarchie ecclesiastiche (con più di una crepa, era contrario, ad esempio, il cardinale Pellegrino, arcivescovo di Torino), si gettò nella mischia, la sinistra fu unita, insieme alle forze laiche, radicali, dello stesso dichiarato e coraggioso dissenso cattolico, nel sostenere le ragioni del NO. Che ebbero dagli italiani un sostegno inaspettatamente forte e deciso. In età avanzata Fanfani, col quale ebbi occasione di numerosi incontri privati, manifestò scetticismo e anche ironia su quella sua scelta di campo referendaria.
L'altro momento di ingerenza diretta del papato nella vita politica italiana fu certamente quello del voto parlamentare e poi del referendum sulla legge per l'interruzione di maternità. Giovanni Paolo II, di cui si tendono a sfumare certi aspetti sessuofobi e misogini (quasi che Benedetto XVI sia piovuto da altri mondi), apparve con la solennità delle grandi occasioni, impugnando il pastorale, dalla loggia centrale di San Pietro per invocare una pronuncia popolare contro la legislazione sull'aborto. Invano anche stavolta, perché italiane e italiani convalidarono a grande maggioranza quella civile, sofferta legislazione.
Quindi, gli atteggiamenti di questi giorni di papa Ratzinger, dei cardinali, dei vescovi non rappresentano una grande novità, purtroppo, sotto il sole di Roma. Rappresentano il segno di una continuità in comportamenti lontani dall'evolversi della società e in conseguenti, palesi ingerenze nella vita politica italiana. Nella cui scena manca, purtroppo, il «partito dei cattolici», con la sua natura laica, con la sua cultura della autonomia nella responsabilità, mentre gli altri partiti sono presenze indebolite, o caricature di partiti come Forza Italia il cui leader, divorziato e risposato, «difende i valori della famiglia» in senso cattolico. Probabilmente al plurale.
E Casini guarda soltanto all'immediato, alla possibilità di far cadere sui Dico il governo Prodi, senza la vista lunga di Moro e di altri. Tutto si gioca nel contingente, nel brevissimo periodo, mentre la Chiesa si arrocca a difesa della unicità dei matrimonii religiosi che quest'anno nella stessa Roma, di cui è vicario il pontefice, sono calati del 20 per cento. Pensare di frenare o, addirittura, di fermare questa crisi profonda e lontana entrando, o rientrando, pesantemente in politica non sembra per niente saggio. È possibile che crei, per reazione, una ripresa di consapevolezza dei valori laici dello Stato democratico moderno. Non se ne può più di vivere in uno Stato a laicità, e quindi a sovranità, limitata.
L'Unità on line del 14 febbraio 2007
di Vittorio Emiliani
Siamo un Paese a laicità limitata? In effetti, la presenza del papa a Roma ha sempre condizionato in modo assai più stringente che altrove la politica interna, anche più che nella (una volta) cattolicissima Spagna. Nei giorni scorsi si sono spesso rievocati il «Non possumus» e il «Non expedit» (1874) papali che tanto a lungo hanno tenuto lontani i cattolici dall'impegno democratico.
E li hanno tenuti lontani proprio nei decenni di costruzione dello Stato unitario. Oppure si è rievocata la continua commistione fra fede e politica praticata da papa Pacelli dopo la nascita della Repubblica italiana. Per concludere che non c'è molto di nuovo in tal senso sotto il sole di Roma.
Certo, erano anni che non sentivamo così pressante, quotidiano, martellante l'intervento vaticano nelle vicende di casa nostra. Troppo facile rispondere a questo allarme che la Chiesa cattolica ha sempre agito così, andando, anche in tempi recenti, ben al di là della riconosciuta libertà di richiamare i fedeli ai principii fondamentali della fede. Fu così, certamente, durante il papato di Pio XII che, ossessionato, fin dagli anni del primo dopoguerra in cui era stato Nunzio in Germania, dall'incombente pericoloso «rosso», concorse potentemente ad alzare con tutte le forze del collateralismo cattolico la «diga al comunismo». Facilitato in ciò anche dalla sciagurata scelta (più di Nenni che di Togliatti, in verità) del Fronte Popolare con un'unica lista. Il papa divenne quindi uno dei protagonisti del trionfo democristiano del 18 aprile 1948, assieme alle parrocchie (ragazzino, ricordo bene i cappellani e i parroci direttamente impegnati in campagna elettorale), ai Comitati civici, all'Azione cattolica, alla Fuci, alla Coldiretti e alla Dc naturalmente. La quale tuttavia era nata come «partito dei cattolici» (e non cattolico), quindi con un impianto laico, e svolse anche allora, con Alcide De Gasperi, un ruolo fondamentale, oggi ampiamente riconosciuto, di mediazione politica a tutto campo. Quando infatti, nel 1952, il Vaticano pretese, purtroppo con un don Luigi Sturzo invecchiato e lontano dalle impostazioni originarie, di piegare la Dc ad un listone con la destra neofascista alle comunali di Roma, la risposta del partito fu negativa e la diede lo stesso De Gasperi. Il quale, del resto, già nel '48, pur avendo la maggioranza assoluta dei seggi in uno dei due rami del Parlamento, volle dare vita a governi di coalizione coi tre partiti laici, Psdi, Pri e Pli.
Gli anni '50 furono anni difficili per il laicismo in Italia, la presenza della Chiesa era capillare e spesso arcaica, la censura cinematografica e teatrale era occhiuta, a volte asfissiante, socialisti e comunisti risultavano ancora scomunicati, nell'agosto del 1956 il vescovo di Prato, monsignor Pietro Fiordelli, bollò in una lettera pubblica al parroco due fedeli uniti soltanto civilmente come «pubblici peccatori e concubini» escludendoli dai riti e dai sacramenti. Fu uno scandalo clamoroso. Ma ve ne fu un altro all'incontrario allorché su querela dello sposo, Mauro Bellandi, il vescovo pratese venne condannato, sia pure ad una ammenda di 40.000 lire, e vi fu chi ne prese le difese, fra cui il Corriere della Sera. Eppure la Dc coltivava da qualche anno un dialogo coi socialisti preparando la cosiddetta «apertura a sinistra». Al Congresso del Psi di Venezia del 1957 si verificò un fatto del tutto insolito e inatteso: il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Roncalli, rivolse infatti ai congressisti un manifesto di saluto che stupì. Poco tempo prima egli aveva duramente condannato una possibile intesa veneta fra Dc e Psi provocando la fine del giornale democristiano che l'aveva sostenuta, Il Popolo del Veneto. Era un primo segnale di apertura al dialogo quel manifesto? Lo era. Tant'è che Roma intervenne subito perché il patriarca ritrattasse. Come avvenne.
Del resto, ancora nel 1959, il gesuita padre Antonio Messineo sosteneva su Civiltà cattolica che l'apertura a sinistra «urta contro un preciso e insuperabile divieto della morale», ammissibile soltanto come «scelta del male minore per evitare il male maggiore». Da escludersi però in caso di accordo col Psi, partito di tradizione, oltre tutto, orgogliosamente laica. Come ben sottolinea Giuseppe Tamburrano nel suo volume su Cronaca e storia del centrosinistra (BUR, 1990), il coro della stampa cattolica - oltre che di quella confindustriale - contro possibili intese fra Dc e Psi era presso che unanime e lo stesso papa Giovanni XXIII, almeno prima del 1960, nei primi due anni di pontificato, «ruppe con l'indirizzo pacelliano (...) con molta prudenza e direi lentezza». Mentre le gerarchie si mantenevano del tutto allineate alle vecchie posizioni, a cominciare dallo stesso «amletico cardinale Montini» (la definizione, privata, è dello stesso Roncalli) il quale, in materia, fu molto reciso nel ribadire la sua conformità «ai ripetuti avvertimenti della sede apostolica». La strategia di Giovanni XXIII mutò in modo netto con l'enciclica «Mater et Magistra» in cui ai cattolici venne riconosciuta una concreta autonomia in politica e con la susseguente «Pacem in terris», enciclica sociale, economica, definita «keynesiana» dagli osservatori anglosassoni. L'apertura del Concilio Vaticano II esigeva, del resto, la rivalutazione del ruolo pastorale della Chiesa e dei suoi vescovi. E tuttavia la parte più conservatrice delle gerarchie si espresse in modo pesante (il cardinale Ottaviani parlò di «vergognoso baratto») quando la Dc decise l'alleanza coi socialisti. Ma al timone c'era Aldo Moro il quale poteva assicurare all'interno e all'esterno che «l'autonomia è la nostra assunzione di responsabilità (...) morale e politica».
Il cammino di quel primo centrosinistra sarebbe stato fecondo e insieme assai travagliato, col drammatico luglio 1964, dove peraltro la Chiesa non ebbe ruolo primario, lo ebbero le forze economiche tese ad indebolire (come accadde) il riformismo del centrosinistra, in materia di politica economica e di urbanistica. Con un sindacato, la Cgil, che, dal lato opposto, all'epoca respingeva la proposta del ministro socialista Antonio Giolitti di «moderare» al 12 per cento le rivendicazioni salariali. Certo, la Chiesa non poteva vedere con favore la riforma sanitaria che potenziava e modernizzava strutture pubbliche subalterne da secoli alla rete privata e quindi anche religiosa. Analogo discorso valeva per la scuola pubblica rispetto a quella confessionale. Fu tuttavia il finanziamento statale, preteso dalle forze cattoliche per le scuole materne, per lo più religiose, a creare «l'incidente» sul quale si ebbe la tormentata e decisiva crisi di governo del 1964.
Durante il pontificato di Paolo VI, papa problematico, inquieto, colto, le occasioni di grave frizione furono date soprattutto dalla legislazione sulla famiglia e in particolare dalla legge sul divorzio proposta da un liberale, Antonio Baslini, e da un socialista, Loris Fortuna, quest'ultimo anche con tessera radicale, sospinti più dalla pubblica opinione che dai partiti (radicali a parte). Essa passò in Parlamento nel dicembre del 1970 fra polemiche molto accese. La Democrazia Cristiana pensò a lungo di poterla modificare agitando lo spauracchio del referendum abrogativo e anzi gettandolo più volte sul tavolo delle trattative sia per il governo che per la presidenza della Repubblica. Il Pci temeva il referendum, allarmato da una irreversibile rottura dei rapporto coi cattolici. Poi, quando Amintore Fanfani, sospinto dalle gerarchie ecclesiastiche (con più di una crepa, era contrario, ad esempio, il cardinale Pellegrino, arcivescovo di Torino), si gettò nella mischia, la sinistra fu unita, insieme alle forze laiche, radicali, dello stesso dichiarato e coraggioso dissenso cattolico, nel sostenere le ragioni del NO. Che ebbero dagli italiani un sostegno inaspettatamente forte e deciso. In età avanzata Fanfani, col quale ebbi occasione di numerosi incontri privati, manifestò scetticismo e anche ironia su quella sua scelta di campo referendaria.
L'altro momento di ingerenza diretta del papato nella vita politica italiana fu certamente quello del voto parlamentare e poi del referendum sulla legge per l'interruzione di maternità. Giovanni Paolo II, di cui si tendono a sfumare certi aspetti sessuofobi e misogini (quasi che Benedetto XVI sia piovuto da altri mondi), apparve con la solennità delle grandi occasioni, impugnando il pastorale, dalla loggia centrale di San Pietro per invocare una pronuncia popolare contro la legislazione sull'aborto. Invano anche stavolta, perché italiane e italiani convalidarono a grande maggioranza quella civile, sofferta legislazione.
Quindi, gli atteggiamenti di questi giorni di papa Ratzinger, dei cardinali, dei vescovi non rappresentano una grande novità, purtroppo, sotto il sole di Roma. Rappresentano il segno di una continuità in comportamenti lontani dall'evolversi della società e in conseguenti, palesi ingerenze nella vita politica italiana. Nella cui scena manca, purtroppo, il «partito dei cattolici», con la sua natura laica, con la sua cultura della autonomia nella responsabilità, mentre gli altri partiti sono presenze indebolite, o caricature di partiti come Forza Italia il cui leader, divorziato e risposato, «difende i valori della famiglia» in senso cattolico. Probabilmente al plurale.
E Casini guarda soltanto all'immediato, alla possibilità di far cadere sui Dico il governo Prodi, senza la vista lunga di Moro e di altri. Tutto si gioca nel contingente, nel brevissimo periodo, mentre la Chiesa si arrocca a difesa della unicità dei matrimonii religiosi che quest'anno nella stessa Roma, di cui è vicario il pontefice, sono calati del 20 per cento. Pensare di frenare o, addirittura, di fermare questa crisi profonda e lontana entrando, o rientrando, pesantemente in politica non sembra per niente saggio. È possibile che crei, per reazione, una ripresa di consapevolezza dei valori laici dello Stato democratico moderno. Non se ne può più di vivere in uno Stato a laicità, e quindi a sovranità, limitata.