il Settecento
di Ezio Savino, Il giornale, venerdì 28 dicembre 2007
La nazione Lakota, sparsa in cinque stati tra Nebraska e Wyoming, ha stracciato le carte firmate con il Governo federale più di un secolo fa. È notizia di questi giorni. «Non siamo più cittadini americani», recriminano i sachem, i capitribù, intendendo i paria di una società e di una cultura che li ha confinati ai margini della disperazione. E hanno stampato patenti e carte d’identità con i bolli Sioux. È l’ultima puntata di una storia epica e tragica, cominciata con una regina, Isabella di Castiglia, che per armare tre caravelle impegnò i gioielli della sua dote.
I contatti iniziali tra i marinai europei e i nativi furono un dislivello. I primi guardavano gli altri dall’alto delle murate di legno. Gli Indiani alzavano gli occhi increduli dalle umili canoe di corteccia di betulla. Uno squilibrio destinato a diventare, con il tempo, voragine sanguinosa, identificata con il mito retorico della «frontiera», linea mobile della volontà e dell’immaginazione aggressiva, spartiacque tra illuminismo cristiano e barbarie pagana, mistificazione autoassolutoria di F.J. Turner. Significativo il fatto che per annunciare un pieno ritorno alla sovranità Russel Means, portavoce dei separatisti, abbia invocato, dopo la Costituzione e la norma internazionale, il diritto di Natura. Un vero e proprio boomerang, rispetto ai pretestuosi proclami delle avanguardie di coloni, che piazzarono i loro forti sulle baie atlantiche e alle foci dei fiumi. «Tutte le preziose doti della Virginia - scriveva il puritano Samuel Purchas nei primi decenni del 1600 -, le doti che quella terra vergine preserva integre sin dalla creazione, sono il nostro premio per avere convertito le nazioni selvagge, e l’Inghilterra può ora reclamare la Virginia come sua proprietà inalienabile in base al diritto di Natura».
Terra vergine? Ma per favore. Vedova, piuttosto. La polemica messa a punto rimbomba nel libro di Francis Jennings L’invasione dell’America. Indiani, coloni e miti della conquista, vigoroso e ben documentato contraddittorio (esemplare il ricalcolo delle statistiche truccate dalla propaganda pionieristica) non solo delle farneticazioni alla Turner, ma anche dei presunti castelli storiografici di autori blindati, come Francis Parkman. La conclusione di Jennings è che, se oggi il taxista nero può scarrozzare i clienti per Harlem, i deputati votare contro o a favore della Casa Bianca di Washington, l’imprenditore di Chicago o Seattle movimentare montagne di dollari e perfino l’astronauta stampare sulla polvere lunare un passo piccolo per l’uomo, ma grande per l’umanità, il merito va equamente spartito tra popoli bianchi e rossi. L’America non è il frutto di un’ambigua supremazia provvidenziale, ma l’esito - alla pari - di un connubio.
Per approdare alla revisione definitiva, l’autore non si appoggia a edulcorate nostalgie primitivistiche, infarcite di pacifismo. Chiama alla sbarra la cattiva coscienza americana, e spara una requisitoria supportata da una serie impressionante di prove a carico. L’archeologia dimostra che la favoletta della terra immacolata è un paradosso grottesco. Le tribù non erano bande esigue. I tumuli riconducono a cifre di abitanti a molti zeri. Che calarono sotto l’attacco delle epidemie inoculate dagli intrusi. Anche il concetto di nomadismo va abrogato, a favore di un pendolarismo ciclico che garantiva un controllo equilibrato del territorio, fondato su profonde nozioni scientifiche delle risorse. Caccia e pesca non erano le attività occasionali di neolitici legati a una sussistenza quotidiana, ma processi industriali organizzati. La datazione al radiocarbonio ha collocato chiuse fluviali per l’ittiocoltura a quattromila anni fa. Il granturco dei nativi, contadini, ma anche orticultori provetti, fu l’avamposto delle colonie, i cui spaesati occupanti, spesso derelitti dalle madrepatrie distratte, non sarebbero sopravvissuti senza la cessione di surplus agricolo da parte degli Indiani, che così furono anche precursori del commercio internazionale. Alle loro piste, disegnate con perizia secolare, si sovrappongono le vie pioniere e, oggi, le autostrade.
Altro che selvaggio indolente e crudele. L’Indiano di Jennings è gemello dell’Ulisse europeo, uomo dalle mille risorse, costruttore, imprenditore, soldato e politico, che combatteva in ranghi ordinati, con armature di cuoio e di legno. Il brigante seminudo, fiero dello scalpo gocciolante, è una vergognosa macchietta confezionata in quel Settecento che pure si gloriava «dei lumi».
di Ezio Savino, Il giornale, venerdì 28 dicembre 2007
La nazione Lakota, sparsa in cinque stati tra Nebraska e Wyoming, ha stracciato le carte firmate con il Governo federale più di un secolo fa. È notizia di questi giorni. «Non siamo più cittadini americani», recriminano i sachem, i capitribù, intendendo i paria di una società e di una cultura che li ha confinati ai margini della disperazione. E hanno stampato patenti e carte d’identità con i bolli Sioux. È l’ultima puntata di una storia epica e tragica, cominciata con una regina, Isabella di Castiglia, che per armare tre caravelle impegnò i gioielli della sua dote.
I contatti iniziali tra i marinai europei e i nativi furono un dislivello. I primi guardavano gli altri dall’alto delle murate di legno. Gli Indiani alzavano gli occhi increduli dalle umili canoe di corteccia di betulla. Uno squilibrio destinato a diventare, con il tempo, voragine sanguinosa, identificata con il mito retorico della «frontiera», linea mobile della volontà e dell’immaginazione aggressiva, spartiacque tra illuminismo cristiano e barbarie pagana, mistificazione autoassolutoria di F.J. Turner. Significativo il fatto che per annunciare un pieno ritorno alla sovranità Russel Means, portavoce dei separatisti, abbia invocato, dopo la Costituzione e la norma internazionale, il diritto di Natura. Un vero e proprio boomerang, rispetto ai pretestuosi proclami delle avanguardie di coloni, che piazzarono i loro forti sulle baie atlantiche e alle foci dei fiumi. «Tutte le preziose doti della Virginia - scriveva il puritano Samuel Purchas nei primi decenni del 1600 -, le doti che quella terra vergine preserva integre sin dalla creazione, sono il nostro premio per avere convertito le nazioni selvagge, e l’Inghilterra può ora reclamare la Virginia come sua proprietà inalienabile in base al diritto di Natura».
Terra vergine? Ma per favore. Vedova, piuttosto. La polemica messa a punto rimbomba nel libro di Francis Jennings L’invasione dell’America. Indiani, coloni e miti della conquista, vigoroso e ben documentato contraddittorio (esemplare il ricalcolo delle statistiche truccate dalla propaganda pionieristica) non solo delle farneticazioni alla Turner, ma anche dei presunti castelli storiografici di autori blindati, come Francis Parkman. La conclusione di Jennings è che, se oggi il taxista nero può scarrozzare i clienti per Harlem, i deputati votare contro o a favore della Casa Bianca di Washington, l’imprenditore di Chicago o Seattle movimentare montagne di dollari e perfino l’astronauta stampare sulla polvere lunare un passo piccolo per l’uomo, ma grande per l’umanità, il merito va equamente spartito tra popoli bianchi e rossi. L’America non è il frutto di un’ambigua supremazia provvidenziale, ma l’esito - alla pari - di un connubio.
Per approdare alla revisione definitiva, l’autore non si appoggia a edulcorate nostalgie primitivistiche, infarcite di pacifismo. Chiama alla sbarra la cattiva coscienza americana, e spara una requisitoria supportata da una serie impressionante di prove a carico. L’archeologia dimostra che la favoletta della terra immacolata è un paradosso grottesco. Le tribù non erano bande esigue. I tumuli riconducono a cifre di abitanti a molti zeri. Che calarono sotto l’attacco delle epidemie inoculate dagli intrusi. Anche il concetto di nomadismo va abrogato, a favore di un pendolarismo ciclico che garantiva un controllo equilibrato del territorio, fondato su profonde nozioni scientifiche delle risorse. Caccia e pesca non erano le attività occasionali di neolitici legati a una sussistenza quotidiana, ma processi industriali organizzati. La datazione al radiocarbonio ha collocato chiuse fluviali per l’ittiocoltura a quattromila anni fa. Il granturco dei nativi, contadini, ma anche orticultori provetti, fu l’avamposto delle colonie, i cui spaesati occupanti, spesso derelitti dalle madrepatrie distratte, non sarebbero sopravvissuti senza la cessione di surplus agricolo da parte degli Indiani, che così furono anche precursori del commercio internazionale. Alle loro piste, disegnate con perizia secolare, si sovrappongono le vie pioniere e, oggi, le autostrade.
Altro che selvaggio indolente e crudele. L’Indiano di Jennings è gemello dell’Ulisse europeo, uomo dalle mille risorse, costruttore, imprenditore, soldato e politico, che combatteva in ranghi ordinati, con armature di cuoio e di legno. Il brigante seminudo, fiero dello scalpo gocciolante, è una vergognosa macchietta confezionata in quel Settecento che pure si gloriava «dei lumi».