domenica 23 dicembre 2007

I cattolici e il «ritorno» del cilicio Messori: meglio che fare palestra

I cattolici e il «ritorno» del cilicio Messori: meglio che fare palestra

Corriere della Sera del 8 marzo 2007, pag. 12

di Gian Guido Vecchi

«Davvero non capisco. Oggi c'è una sacralità addirittura feticistica per la libertà totale e di chiunque, perché mai chi è esterno all'ascetica cristiana dovrebbe occuparsene o indignarsi? Per dire, ma se io stanotte mi flagellassi a lei importerebbe qualcosa?». Vittorio Messori tira un sospiro vagamente ironico, «eh sì, vivremmo tutti meglio se ciascuno si facesse i cilici suoi». E invece no, troppo facile. La povera senatrice e numeraria dell'Opus Dei Paola Binetti cade nel trappolone, ammette in tv di non ignorare l'uso del cilicio, tenta di darne un senso («ci costringe a riflettere sulla fatica del vivere, è il sacrificio della mamma che si sveglia di notte perché il bimbo piange»), serve un assist a porta vuota a Franco Grillini («ma certo, il sadomasochismo è un modo di godimento, ha tutto il diritto di farlo!») e lo strumento ne esce come protagonista assoluto, ammantato d'un fascino gotico tipo garrota o vergine di ferro e in più garantito dal successo planetario del Codice da Vinci. Tutti pensano al «monaco» Silas dell'Opus Dei, tutto assassinii e penitenze, e pazienza se nell'Opera i monaci manco esistono. A quelli dell'Opus è toccato ripeterlo per l'ennesima volta, «il cilicio è nominato nella Bibbia, non è una nostra invenzione, san Josemaría ne sconsigliava l'uso alla maggior parte dei fedeli...». Anche le accuse di «imporlo» per due ore al giorno sono storia vecchia, smentita, rilanciata eccetera. Resta il fatto che a quanto pare circoli ancora l'evoluzione di quel panno ruvido intessuto (nella regione della Cilicia, appunto) di peli di capra: lo indossavano i soldati romani e si dice che i primi anacoreti cristiani, come penitenza, usassero portarlo sulla pelle nuda. Poi sono arrivate le versioni in metallo, i ganci.



E non è che facesse furore tra pazzi fanatici e ignoranti: lo usavano Dottori della Chiesa come la mistica trecentesca Santa Caterina da Siena, un genio dell'umanesimo come Tommaso Moro, in tempi più recenti pure il coltissimo Paolo VI. E allora? Messori, lo scrittore cattolico più letto al mondo, autore di best-seller planetari sia con Wojtyla sia con Ratzinger, confessa: «Io sono un pigro, doppiamente scomunicato dal politicamente corretto perché fumatore e leggermente obeso, e le poche volte che m'è capitato di vedere una palestra ho provato una sensazione di raccapriccio, il fitness!, mi parevano strumenti di tortura... Non solo sudavano ma manifestamente soffrivano. E i cicloturisti? E quelli che fanno roccia? E le diete? E la chirurgia estetica?». Insomma, «il mondo è pieno di gente che, grazie a Dio, sceglie liberamente il suo tipo di sofferenza, solo che questa è elogiata ed elegante. Immagino che almeno il cilicio sia più economico che rifarsi il naso».



Sì, ma che senso ha? «Il senso è comprensibile solo in una prospettiva di fede. Non mi accodo alle crociate dei cattolici su matrimonio o eutanasia perché finisce sempre che facciamo la parte dei rompiscatole, dall'esterno sembrano aberranti». Il cilicio riguarda l'ascesi, «cioè la salita spirituale, l'invito a partecipare in qualche modo alla Passione di Cristo» e del resto «la Chiesa invita all'equilibrio, nelle penitenze, il limite è non danneggiare mai la propria salute». Senza contare che il penitente «non danneggia nessuno. Io non ho mai chiesto a nessuno se lo portava perché tanto non me l'avrebbe detto. Come dice Gesù: fai penitenza nel chiuso della tua stanza. Li lascino in pace...». Non è l'unico a pensarla così. «Piuttosto è strano che i cristiani non lo pratichino più, o che si faccia così poco il digiuno», osserva Antonio Socci. Altro che scandali: «È come dicevano Del Noce e Don Giussani: la cultura contemporanea è sleale verso il cristianesimo perché se ne costruisce una caricatura e fa i conti con essa. A Medjugorje e Fatima la Madonna ha chiesto rosario, digiuno e penitenza. E qui non c'è ricerca del dolore: se tuo figlio o un amico avesse bisogno, non andresti a donare il sangue? Non ti alzeresti nel cuore della notte? Ogni sacrificio è sempre un gesto d'amore anche se al di fuori può apparire folle, la follia di un Dio che per salvarci si è fatto flagellare, sputare e crocifiggere anziché usare il potere».

Del resto, fa notare il poeta Davide Rondoni, «il sacrifico crea sempre scandalo, anche quello di Padre Kolbe o di Salvo D'Acquisto, se non si capisce di fronte a che cosa e per che cosa è fatto. In un'epoca nella quale Dio è ritenuto assente è ovvio che sia difficile capire. A me il cilicio fa l'effetto di qualcosa da trattare con grande rispetto, sono scelte personali non banali. Sono molto più preoccupato dei tanti cilici obbligatori che ci vengono fatti indossare, mente e corpo, dalla società in cui viviamo: almeno la pratica ascetica può piacere a Dio, questi al massimo possono essere graditi al capufficio». Don Gianni Baget Bozzo è lapidario: «Cristo ha salvato il mondo non con le parole, ma con il suo sangue». Però non crede sia ancora diffuso, «accadeva un tempo, ma il mondo post- cristiano, e anche un po' noi credenti, ha dimenticato che la sofferenza ha un senso: il male non è il male, il male è il dolore fisico». Eppure Luigi Amicone, direttore di Tempi, un dubbio lo ha: «Personalmente sono intemperante e non autoflagellante. Non mi sono avvicinato al cristianesimo pensando al sacrificio. Forse il cilicio appartiene a un'epoca perfetta come il Medioevo, a quell'equilibrio tra uomo, mondo e Dio cui non mancava alcuna sfumatura, neanche il mistero, la grande mistica... Nella nostra età imperfetta tocca a tutti noi, poveri cristi, risalire la china: il cilicio lo abbiamo già, è la nostra vita quotidiana».