L'altro ucciso in nome della verità assoluta
«Non avrai altro Dio» dello studioso tedesco Jan Assmann. Un saggio che analizza l'uso della violenza contro gli «infedeli» nelle religioni monoteiste
Carlo Altini
Il Manifesto, 9 dicembre 2007
È difficile negare che la religione sia, negli ultimi tempi, un potente strumento di contrapposizione sociale e di mobilitazione delle masse in grado di innescare e diffondere fenomeni di violenza. Non si tratta naturalmente di un fenomeno nuovo perché è stato caratteristico, per lunghi secoli, della storia europea e mediterranea (le Crociate, l'Inquisizione, le guerre di religione del XVI e XVII secolo e così via). Il legame tra religione e violenza non può però essere «naturalizzato»: non tutte le religioni intrattengono infatti lo stesso rapporto con la violenza. Il problema consiste allora nel comprendere i fattori che determinano strutturalmente il rapporto tra uno specifico tipo di religione e la violenza. È il compito che si è posto l'archeologo tedesco nonché antropologo delle religioni Jan Assmann nel suo volume Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza (il Mulino, pp. 147, euro 9), mirando a individuare nell'avvento delle religioni monoteistiche il momento decisivo per la fondazione del linguaggio della violenza religiosa.
I politeismi avevano creato sistemi di divinità che potevano essere comparati e tradotti culturalmente, perché tutti gli dèi - i propri come quelli degli altri - erano considerati veri e legittimi: la loro pluralità era semplicemente frutto della diversità dei «costumi», cioè della differenza culturale. I monoteismi (senza differenze tra ebraismo, cristianesimo e islam) hanno posto fine a questa traducibilità affermando un nuovo concetto di verità, esclusivo e irriducibile, che giunge a una rigida separazione tra vera e falsa religione: «è proprio la religione dell'altro che diventa l'elemento estraneo e nemico, per l'esattezza nemico di Dio. Nella religione dell'altro si coglie la quintessenza dell'estraneità».
Le religioni monoteistiche non sono dunque luoghi dello scambio comunicativo. Semmai, inagurano l'epoca delle contrapposizioni violente fondate sulla verità assoluta della rivelazione depositata nel canone, nell'ortodossia, nei testi sacri. Per questo motivo la parola chiave dei politeismi è traduzione (che esprime la pluralità dell'articolazione religiosa), mentre quella dei monoteismi è conversione (fondata sull'opposizione vero/falso e sulla semantica dell'esclusione): «posso tradurre ciò che è estraneo in ciò che mi è proprio, ma non posso tradurre il falso nel vero».
Assmann giunge a questa distinzione attraverso un'analisi genealogica dei primi testi monoteistici, quelli vetero-testamentari, nei quali il linguaggio della violenza religiosa si presenta in una forma inedita, distinguendo radicalmente l'amico dal nemico. Il problema fondamentale consiste allora nel rapporto tra religione, politica e violenza: nei politeismi la violenza è in relazione al principio politico della sovranità, nei monoteismi in relazione al principio teologico della divinità. Si passa così da una questione di potere a una questione di «verità assoluta»: le altre religioni vengono così aggredite dai monoteismi non solo in quanto altre, ma soprattutto in quanto false.
Tuttavia Assmann non è interessato tanto alla veridicità storica degli episodi di violenza narrati dai testi biblici, quanto alla loro funzione simbolica nella costruzione della memoria culturale: «perché si raccontano simili storie?». Tali racconti hanno senza dubbio carattere di ammonimento e di intimidazione. Ma non solo. La funzione simbolica della violenza esprime infatti l'innovazione determinata dai monoteismi, che si appropriano dell'etica e del diritto proponendo un'immagine di Dio come sovrano legislatore: la violazione della legge non è violazione di una norma umana, bensì divina, che richiede dunque una sanzione sacralizzata. Allo stesso tempo, la funzione simbolica della violenza risponde alla domanda di unità e di purezza della comunità: la violenza dei monoteismi è spesso rivolta verso membri del proprio gruppo per salvaguardare l'integrità della fede e del culto.
Non sembra difficile comprendere le ragioni dell'ostilità con la quale queste tesi sono state accolte dai teologi contemporanei, in primis dal cardinale Ratzinger. Proprio perché giocata su un piano strutturale come quello del linguaggio, l'analisi di Assmann mina alla radice la pretesa dei monoteismi di presentarsi come teologie politiche mentre, contemporaneamente, pretendono di esprimere le ragioni dell'interiorità. Nei monoteismi l'unione di politica e religione conduce necessariamente alla violenza: non a caso, è proprio dalla semantica dell'esclusione e dalla distinzione vero/falso che nascono gli attuali fondamentalismi religiosi. La soluzione a questo cortocircuito tra religione e violenza non consiste, ovviamente, nel ricostruire improbabili politeismi o nello scommettere sulla prossima rovina dei monoteismi.
Assmann si limita a indicare una diversa declinazione dei monoteismi, intesi non più come religioni universali, ma come religioni storiche che adottano dispositivi validi solo localmente: se i monoteismi vivono consapevolmente in un mondo politeistico, la violenza religiosa viene depotenziata. Nulla però viene detto da Assmann sul destino pubblico dell'ateismo, che pure ha avuto tanta parte nella storia dell'umanità e che potrebbe avere un ruolo decisivo nello spezzare il nefasto nesso tra religione, politica e violenza.
«Non avrai altro Dio» dello studioso tedesco Jan Assmann. Un saggio che analizza l'uso della violenza contro gli «infedeli» nelle religioni monoteiste
Carlo Altini
Il Manifesto, 9 dicembre 2007
È difficile negare che la religione sia, negli ultimi tempi, un potente strumento di contrapposizione sociale e di mobilitazione delle masse in grado di innescare e diffondere fenomeni di violenza. Non si tratta naturalmente di un fenomeno nuovo perché è stato caratteristico, per lunghi secoli, della storia europea e mediterranea (le Crociate, l'Inquisizione, le guerre di religione del XVI e XVII secolo e così via). Il legame tra religione e violenza non può però essere «naturalizzato»: non tutte le religioni intrattengono infatti lo stesso rapporto con la violenza. Il problema consiste allora nel comprendere i fattori che determinano strutturalmente il rapporto tra uno specifico tipo di religione e la violenza. È il compito che si è posto l'archeologo tedesco nonché antropologo delle religioni Jan Assmann nel suo volume Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza (il Mulino, pp. 147, euro 9), mirando a individuare nell'avvento delle religioni monoteistiche il momento decisivo per la fondazione del linguaggio della violenza religiosa.
I politeismi avevano creato sistemi di divinità che potevano essere comparati e tradotti culturalmente, perché tutti gli dèi - i propri come quelli degli altri - erano considerati veri e legittimi: la loro pluralità era semplicemente frutto della diversità dei «costumi», cioè della differenza culturale. I monoteismi (senza differenze tra ebraismo, cristianesimo e islam) hanno posto fine a questa traducibilità affermando un nuovo concetto di verità, esclusivo e irriducibile, che giunge a una rigida separazione tra vera e falsa religione: «è proprio la religione dell'altro che diventa l'elemento estraneo e nemico, per l'esattezza nemico di Dio. Nella religione dell'altro si coglie la quintessenza dell'estraneità».
Le religioni monoteistiche non sono dunque luoghi dello scambio comunicativo. Semmai, inagurano l'epoca delle contrapposizioni violente fondate sulla verità assoluta della rivelazione depositata nel canone, nell'ortodossia, nei testi sacri. Per questo motivo la parola chiave dei politeismi è traduzione (che esprime la pluralità dell'articolazione religiosa), mentre quella dei monoteismi è conversione (fondata sull'opposizione vero/falso e sulla semantica dell'esclusione): «posso tradurre ciò che è estraneo in ciò che mi è proprio, ma non posso tradurre il falso nel vero».
Assmann giunge a questa distinzione attraverso un'analisi genealogica dei primi testi monoteistici, quelli vetero-testamentari, nei quali il linguaggio della violenza religiosa si presenta in una forma inedita, distinguendo radicalmente l'amico dal nemico. Il problema fondamentale consiste allora nel rapporto tra religione, politica e violenza: nei politeismi la violenza è in relazione al principio politico della sovranità, nei monoteismi in relazione al principio teologico della divinità. Si passa così da una questione di potere a una questione di «verità assoluta»: le altre religioni vengono così aggredite dai monoteismi non solo in quanto altre, ma soprattutto in quanto false.
Tuttavia Assmann non è interessato tanto alla veridicità storica degli episodi di violenza narrati dai testi biblici, quanto alla loro funzione simbolica nella costruzione della memoria culturale: «perché si raccontano simili storie?». Tali racconti hanno senza dubbio carattere di ammonimento e di intimidazione. Ma non solo. La funzione simbolica della violenza esprime infatti l'innovazione determinata dai monoteismi, che si appropriano dell'etica e del diritto proponendo un'immagine di Dio come sovrano legislatore: la violazione della legge non è violazione di una norma umana, bensì divina, che richiede dunque una sanzione sacralizzata. Allo stesso tempo, la funzione simbolica della violenza risponde alla domanda di unità e di purezza della comunità: la violenza dei monoteismi è spesso rivolta verso membri del proprio gruppo per salvaguardare l'integrità della fede e del culto.
Non sembra difficile comprendere le ragioni dell'ostilità con la quale queste tesi sono state accolte dai teologi contemporanei, in primis dal cardinale Ratzinger. Proprio perché giocata su un piano strutturale come quello del linguaggio, l'analisi di Assmann mina alla radice la pretesa dei monoteismi di presentarsi come teologie politiche mentre, contemporaneamente, pretendono di esprimere le ragioni dell'interiorità. Nei monoteismi l'unione di politica e religione conduce necessariamente alla violenza: non a caso, è proprio dalla semantica dell'esclusione e dalla distinzione vero/falso che nascono gli attuali fondamentalismi religiosi. La soluzione a questo cortocircuito tra religione e violenza non consiste, ovviamente, nel ricostruire improbabili politeismi o nello scommettere sulla prossima rovina dei monoteismi.
Assmann si limita a indicare una diversa declinazione dei monoteismi, intesi non più come religioni universali, ma come religioni storiche che adottano dispositivi validi solo localmente: se i monoteismi vivono consapevolmente in un mondo politeistico, la violenza religiosa viene depotenziata. Nulla però viene detto da Assmann sul destino pubblico dell'ateismo, che pure ha avuto tanta parte nella storia dell'umanità e che potrebbe avere un ruolo decisivo nello spezzare il nefasto nesso tra religione, politica e violenza.