Paolo Rumiz
Il ritorno di Dolcino ribelle per sempre
Tratto da “la Repubblica”, 6 maggio 2007
C’è uno spettro sulle montagne del Piemonte. Sono passati sette secoli, e continua a farsi vedere. Appare sulle sponde del lago Maggiore e nelle valli protestanti dei valdesi; lascia tracce del suo passaggio nel Biellese, che vide la sua rivolta di ieri, ma anche in Valsusa, che consuma la sua rivolta di oggi contro l’alta velocità ferroviaria. Fuochi ghibellini riaccendono il rogo che lo ridusse in cenere il primo giugno 1307: puoi vederli, talvolta, sui colli sotto il Monte Rosa che conobbero il suo messaggio libertario e poi la sconfitta. “Dolcino vive”, sta scritto da Ivrea alla Valsesia. Non è solo memoria, è avvertimento. Ai burocrati, ai poteri centrali, agli ermellini vaticani, ai signori degli ipermercati e del turismo di massa, ai padroni delle dighe e dei tunnel ferroviari. A tutti coloro che hanno cementificato le Alpi, svuotato fiumi e pascoli, trasformato le vallate in dimenticate banlieues. Attenti a Dolcino il ribelle, arso vivo dai latifondisti e dai vescovi corrotti della Padania. Potrebbe ancora tornare.
Quare, profonda Valsesia. Il vento porta odore di neve, nubi si arrampicano dal fondovalle, aprono squarci verso il Monte Rosa. Un vecchietto al bar: “I preti dicevano che fosse un demonio, ma per noi fu un grande. Dolcino s’è battuto per la nostra autonomia. Ce ne fossero ancora come lui!”. Il pastore valdese Tavo Burat, appassionato animatore del centro studi dolciniani, evoca immagini da Armageddon: “Gli strapparono le carni con tenaglie roventi, amputarono il naso e il membro virile, poi accesero un fuoco sul Sesia e sparsero le ceneri”. Racconta della sua donna, la pulcherrima Margherita da Trento - bruciata pure lei - e dei suoi seguaci che predicavano povertà, affrancamento della donna, diserzione fiscale, autogoverno, rifiuto delle "angherie", i contratti-capestro imposti dai proprietari terrieri. “Per questo il messaggio inquieta ancora oggi”.
Trivero, paese tessile sotto il monte Rubello, dove il giovedì santo del 1307 avvenne la cattura di Dolcino e lo sterminio dei suoi. Qui le celebrazioni sono già iniziate, con mostre, pièces teatrali, dibattiti, inaugurazioni di cippi, apertura di sentieri, piccoli falò sulle creste dei monti. Una mobilitazione dal basso, che ha coinvolto una ventina di frazioni. I paesi si chiamano nella nebbia con il tocco sfasato dei loro campanili, sincronizzati ciascuno per conto suo col Grande Orologiaio dell’universo. È a Trivero che la leggenda del grande sconfitto si sente con più forza. è qui sopra che nel 1907 gli operai gli eressero un obelisco, che poi i fascisti fecero saltare in aria col silenzio-assenso della Curia. “I volean pa maoudire, ni jurar, ni mentir, ni masar” - i dolciniani erano bella gente, non volevano maledire, spergiurare, mentire o ammazzare - garantisce in lingua piemontese Jean-Louis Sappé, capo del gruppo teatrale di Angrogna giunto apposta a Trivero dalle montagne valdesi. Il suo gruppo porta di villaggio in villaggio la storia del gran ribelle, narrata in scena da tre giullari. Spiega che i dolciniani “vivevano come colombe di pace in mezzo ai monti”, ma poi i nemici li hanno sterminati: “Dona, velh, meinà”, donne, vecchi e bambini. “Dolcino”, dice Sappé a fine spettacolo, “è stato sconfitto come Jan Hus e Thomas Munzer, ma il rogo non può cancellare la loro memoria e neppure la forza delle loro idee. Attraverso il nostro spettacolo, Dolcino parla ancora”.
Sono settecento anni che la sua ombra eretica viaggia per le Alpi, infiamma e imbarazza, diventa bandiera di resistenza e pretesto di repressione. Demone per gli uni, santo per gli altri, dal Medioevo a oggi Dolcino è termometro delle tensioni fra centro e periferie ed è anche il segno di un destino montanaro antitetico a quello delle genti svizzere che nello stesso annus terribilis, il 1307, segnarono con Guglielmo Tell la loro vittoria sulle truppe imperiali.
Il suo mito riemerge sempre, nei tempi di lotta: con la caccia alle streghe del Seicento; con la Rivoluzione francese che ridà fiato al suo messaggio di libertà, eguaglianza e fraternità; con le lotte operaie, poi con l’antifascismo e la Resistenza. Fino alle trincee dell’oggi contro l’insensata monocultura del Globale. “Cari valligiani ribelli, è con uno slancio del cuore che abbiamo deciso di scrivervi. Da secoli ci aggiriamo, stanchi e obliqui, sopra i fatti del mondo”. Vediamo “montagne sventrate dall’arroganza del denaro, vallate affogate nel cemento, genti rassegnate e chine”. È una lettera firmata da Dolcino e Margherita, diventata manifesto per i ribelli anti-Tav della Valsusa. Chi l’abbia scritta non si sa, ma nessuno si pone la domanda. È bastato quel nome a farla circolare e a commuovere la gente. “Quel formicaio di uomini soli che ancora chiamate società ci ha tolto ogni gusto per le parole”, ma “la passione ci è tornata” vedendo “quegli stessi cantieri partigiani ripercorsi da donne, uomini e bambini ostili a un treno carico di sventure e difeso da mercenari in uniforme”. In un anno e mezzo appena, l’occupazione militare della Valsusa sotto il governo Berlusconi è già diventata mitologia tra i montanari, definiti “zotici”, “retrogradi”, “egoisti” e “nullafacenti” dai ministri romani. Dolcino e Margherita son tornati, come ne L’ultima valle di Carlo Sgorlon, penetrando non si sa come “nel nostro tempo di macchine e motori”, quasi senza accorgersi che la loro epoca era finita. Anche l’associazione nata dalla protesta ferroviaria ha preso un nome dolciniano: Credenza, che non vuol dire il posto del cibo, ma luogo della fiducia reciproca e dell’assemblea. “Prima tra noi valligiani c’era solo la sottomissione e il silenzio”, racconta Nicoletta Dosio di Bussoleno, “oggi ci si parla e si progetta. Ci son voluti i manganelli a fare il miracolo. Da secoli la sconfitta era così interiorizzata che i montanari pensavano fosse inutile combattere”.
Ma chi fu davvero Dolcino? “Molti lo stracapirono”, racconta il biellese Alfredo Bider, appassionato cultore della zona, “ma di certo fu un ribelle anticentralista e come tale divenne un eroe”. Sicuramente non fu un "frate", come sembra alludere Dante nella Commedia, ma solo un "fratello". Un "compagno" nel senso etimologico del termine, quello di "co-pain", cioè colui col quale si divide il pane, il testimone della comunione dei beni predicata dal cristianesimo originario. Soprattutto, il valsesiano Dolcino stava tutto nella tradizione delle sue montagne. Per questo la sua leggenda vive così a lungo, e conta forse più della sua storia. Sul Rubello, il luogo della mattanza, poco è cambiato. Stesse ventose scarpate tibetane, stesso dio di ghiaccio che sovrasta le risaie vercellesi come l’Ararat la Mesopotamia. Tutto indica una montagna speciale, indomita e alacre: gobbi ponti medievali sospesi su forre terrificanti, cimiteri di venerabili corporazioni - muratori e cappellai, banchieri e tessitori - detentrici di segreti, chiese ornate di simboli massonici (stelle, svastiche e compassi) messe a capolinea di percorsi esoterici serpeggianti tra acque sorgive e massi ciclopici di granito. E poi una ghirlanda di santuari, spesso enormi, sproporzionati per quegli spazi pure immensi: chiese come il Sacro Monte di Varallo formicolante di statue o l’eremo di Oropa, il più grande delle Alpi, dove abita una nera Madonna e prima, al tempo dei Celti, abitò la Grande Signora della Notte. Forse dietro a quell’enormità sacrale sta l’urgenza di tenere a bada l’anima inquieta di queste montagne che furono rifugio di elvezi, alemanni ed ebrei e videro le prime ribellioni anticlericali, le prime industrie tessili e le prime rivolte operaie d’Italia. L’ombra di Dolcino ne è l’incarnazione mitica. Un mito nato subito dopo la strage del Rubello, quando la vecchia leggenda celtica dei morti che cavalcano ogni anno le creste dei monti si attualizzò e divenne processione dei gàser, i Càtari sterminati dai papisti fra Alpi e Pirenei. Diventò - come spiega Carlo Ginzburg - rappresentazione dell’epopea dei "poveri cristi". Già nel Seicento la Chiesa dovette correre ai ripari e inventarsi il falso storico delle "leghe valsesiane", coalizioni spontanee di montanari contro l’eretico, definito brigante e nemico della povera gente. La grotta di Dolcino sul Rubello venne battezzata "Tana del Diavolo" e la Valsesia costellata di lapidi celebranti la sconfitta del demonio. Non bastò: la memoria dei vinti era ancora lunga. Quando all’inizio dell’Ottocento il Piemonte ricominciò a puzzare di zolfo per l’ingresso in campo di forze mazziniane, egualitariste e anticlericali, un deputato progressista al parlamento subalpino, Angelo Broferio, si risolse a rompere la visione demoniaca di Dolcino scrivendone come di uno che “alle nequizie del clero” aveva opposto “la santità del Vangelo”. La Curia rispose facendo costruire sul Rubello un bel santuario dedicato a San Bernardo. “Ma il cielo non fu d’accordo”, ghigna il valdese Burat, “e scaricò sulla messa inaugurale una tempesta così feroce che preti e chierichetti dovettero scappare a valle con ostensori e tabernacoli. I montanari urlarono al ritorno dei "Gàzzari" e a Cassato in Valsesia “la gente buttò la statua di Cristo nel fiume, dandogli poi fuoco e guadagnandosi l’epiteto sempiterno di Brusacrist”. Intanto, con l’industrializzazione e la nascita di una classe operaia, s’era scoperto un "altro" Cristo, quello che camminava con i poveri. È a questo punto che leggenda e socialismo si saldano. La montagna rilancia Dolcino per farne l’apostolo del movimento operaio. Nel suo nome si sciopera, si riuniscono i capi delle Leghe operaie, si stampano i primi fogli sovversivi e poi i giornali di area laico-progressista. Nel 1877, durante uno sciopero, i leader del sindacato tengono assemblea sul Rubello. Anche padroni come Emanuele Sella e la massoneria illuminata sentono il fascino del profeta dell’uguaglianza. Nel 1881 il Club alpino di Biella organizza una gita sul monte del massacro e persino il periodico conservatore “L’eco dell’industria” si chiede se sia giustificato “l’orrore che i più sentono verso Dolcino”, battutosi contro “i deplorevoli abusi della Curia romana”. Anche Antonio Labriola lo riabilita. E quando nel 1898 il generale Bava Beccaris a Milano fa sparare sui mendicanti e poi sulla folla, alcuni capi della protesta operaia, per non essere arrestati, vanno a rifugiarsi proprio sul Rubello, dove il primo maggio del 1900 innalzano una gigantesca bandiera rossa, visibile fino in pianura. Nel 1907 - per i sei secoli dalla strage - gli operai decidono di dedicare a Dolcino un obelisco sulla cima del monte Massaro, di fronte al Rubello. Il giornale della Curia esce listato a lutto, chiede che si recitino novene per il fallimento dell’iniziativa, ma l’11 agosto all’inaugurazione arrivano in diecimila, inclusi i rappresentanti delle logge massoniche con i loro simboli.
Con i massacri al fronte, la disfatta di Caporetto e la Rivoluzione russa, i socialisti organizzano marce della pace, di nuovo in nome di Dolcino. Ma ormai lo scontro di classe sta diventando duro e l’erma in pietra ne diventa il simbolo. Basta che la sorveglianza si allenti e l’obelisco viene preso a picconate.
Arriva il terrore fascista, Mussolini firma l’armistizio tra Stato e Chiesa dopo mezzo secolo di guerra fredda. Subito il monumento viene fatto saltare in aria durante un’esercitazione. Le Brigate nere fanno togliere le lapidi dedicate al ribelle e ammazzano a bastonate sindacalisti dolciniani. Fatalmente sono gli antifascisti a rioccupare quei luoghi durante la Resistenza. Nel libro Il Monte Rosa scese a Milano il capo partigiano Cino Moscatelli racconta che in Valsesia le brigate hanno addirittura ispirato la loro strategia alla leggenda degli agguati dolciniani contro l’armata vescovile.
Poi sulla leggenda scende il cloroformio democristiano, l’epopea viene cancellata dai libri di storia, finché negli anni Sessanta Dario Fo rilancia il montanaro rivoluzionario in Mistero Buffo, memorabile giullarata contro i poteri forti d’Italia. Ma dalla sinistra ufficiale non arriva nessuna riabilitazione. Per vedere un omaggio a Dolcino bisogna aspettare che si muovano i valdesi nel 1974, quando Tavo Burat fa mettere una lapide sui ruderi del monumento abbattuto e migliaia di montanari affluiscono alla cerimonia. Umberto Eco suggella il revival inserendo ne Il nome della rosa la storia di due frati dolciniani scampati al massacro.
Non bruciano più i roghi, ma l’ombra del ribelle fa paura ancora oggi. Quando nel 1980 una lapide a Dolcino viene ritrovata in uno scantinato del museo di Vercelli, la Sovrintendenza non dà il nulla osta per il ricollocamento. E quando nel 2000 la lastra di marmo viene finalmente reinaugurata in corso Libertà, il deputato Roberto Rosso, figlio delle risaie in forza tra i berluscones, protesta e chiede che l’omaggio a Dolcino vada tolto di mezzo, scatenando un codazzo di polemiche con manifesti anarchici, omaggi floreali del Partito radicale, insulti al sindaco, risse nella sinistra. La lapide rimarrà al suo posto, a segnare come un termometro di precisione la temperatura politica in Padania.
“Dietro la memoria di Dolcino c’è la rabbia della montagna per le sue sconfitte”, dice Chiara Fiorina che gestisce un piccolo bar in località Balma sopra Biella. “È dura, è sempre più dura vivere quassù. Abbiamo contro tutto, l’Inps, gli uffici sanitari, il Tesoro”. Se rimane, Chiara, è solo per l’affascinante energia del luogo, l’amore per una terra estrema che ha dato i natali a pacifisti e combattenti, grandi missionari e duri ghibellini, predicatori rivoluzionari e preti capaci di decriptare i silenzi dell’Alpe.
Trovi di tutto sui monti di Dolcino: soldati come Pietro Micca capaci di farsi saltare in aria per la patria, o come Antonio Gastaldi, passato ai briganti borbonici in nome della giustizia e della libertà. Grandi uomini d’ordine, ma anche geniali falsari come Samuele Farinet che batté moneta solo per togliere i montanari dalla miseria.
Il ritorno di Dolcino ribelle per sempre
Tratto da “la Repubblica”, 6 maggio 2007
C’è uno spettro sulle montagne del Piemonte. Sono passati sette secoli, e continua a farsi vedere. Appare sulle sponde del lago Maggiore e nelle valli protestanti dei valdesi; lascia tracce del suo passaggio nel Biellese, che vide la sua rivolta di ieri, ma anche in Valsusa, che consuma la sua rivolta di oggi contro l’alta velocità ferroviaria. Fuochi ghibellini riaccendono il rogo che lo ridusse in cenere il primo giugno 1307: puoi vederli, talvolta, sui colli sotto il Monte Rosa che conobbero il suo messaggio libertario e poi la sconfitta. “Dolcino vive”, sta scritto da Ivrea alla Valsesia. Non è solo memoria, è avvertimento. Ai burocrati, ai poteri centrali, agli ermellini vaticani, ai signori degli ipermercati e del turismo di massa, ai padroni delle dighe e dei tunnel ferroviari. A tutti coloro che hanno cementificato le Alpi, svuotato fiumi e pascoli, trasformato le vallate in dimenticate banlieues. Attenti a Dolcino il ribelle, arso vivo dai latifondisti e dai vescovi corrotti della Padania. Potrebbe ancora tornare.
Quare, profonda Valsesia. Il vento porta odore di neve, nubi si arrampicano dal fondovalle, aprono squarci verso il Monte Rosa. Un vecchietto al bar: “I preti dicevano che fosse un demonio, ma per noi fu un grande. Dolcino s’è battuto per la nostra autonomia. Ce ne fossero ancora come lui!”. Il pastore valdese Tavo Burat, appassionato animatore del centro studi dolciniani, evoca immagini da Armageddon: “Gli strapparono le carni con tenaglie roventi, amputarono il naso e il membro virile, poi accesero un fuoco sul Sesia e sparsero le ceneri”. Racconta della sua donna, la pulcherrima Margherita da Trento - bruciata pure lei - e dei suoi seguaci che predicavano povertà, affrancamento della donna, diserzione fiscale, autogoverno, rifiuto delle "angherie", i contratti-capestro imposti dai proprietari terrieri. “Per questo il messaggio inquieta ancora oggi”.
Trivero, paese tessile sotto il monte Rubello, dove il giovedì santo del 1307 avvenne la cattura di Dolcino e lo sterminio dei suoi. Qui le celebrazioni sono già iniziate, con mostre, pièces teatrali, dibattiti, inaugurazioni di cippi, apertura di sentieri, piccoli falò sulle creste dei monti. Una mobilitazione dal basso, che ha coinvolto una ventina di frazioni. I paesi si chiamano nella nebbia con il tocco sfasato dei loro campanili, sincronizzati ciascuno per conto suo col Grande Orologiaio dell’universo. È a Trivero che la leggenda del grande sconfitto si sente con più forza. è qui sopra che nel 1907 gli operai gli eressero un obelisco, che poi i fascisti fecero saltare in aria col silenzio-assenso della Curia. “I volean pa maoudire, ni jurar, ni mentir, ni masar” - i dolciniani erano bella gente, non volevano maledire, spergiurare, mentire o ammazzare - garantisce in lingua piemontese Jean-Louis Sappé, capo del gruppo teatrale di Angrogna giunto apposta a Trivero dalle montagne valdesi. Il suo gruppo porta di villaggio in villaggio la storia del gran ribelle, narrata in scena da tre giullari. Spiega che i dolciniani “vivevano come colombe di pace in mezzo ai monti”, ma poi i nemici li hanno sterminati: “Dona, velh, meinà”, donne, vecchi e bambini. “Dolcino”, dice Sappé a fine spettacolo, “è stato sconfitto come Jan Hus e Thomas Munzer, ma il rogo non può cancellare la loro memoria e neppure la forza delle loro idee. Attraverso il nostro spettacolo, Dolcino parla ancora”.
Sono settecento anni che la sua ombra eretica viaggia per le Alpi, infiamma e imbarazza, diventa bandiera di resistenza e pretesto di repressione. Demone per gli uni, santo per gli altri, dal Medioevo a oggi Dolcino è termometro delle tensioni fra centro e periferie ed è anche il segno di un destino montanaro antitetico a quello delle genti svizzere che nello stesso annus terribilis, il 1307, segnarono con Guglielmo Tell la loro vittoria sulle truppe imperiali.
Il suo mito riemerge sempre, nei tempi di lotta: con la caccia alle streghe del Seicento; con la Rivoluzione francese che ridà fiato al suo messaggio di libertà, eguaglianza e fraternità; con le lotte operaie, poi con l’antifascismo e la Resistenza. Fino alle trincee dell’oggi contro l’insensata monocultura del Globale. “Cari valligiani ribelli, è con uno slancio del cuore che abbiamo deciso di scrivervi. Da secoli ci aggiriamo, stanchi e obliqui, sopra i fatti del mondo”. Vediamo “montagne sventrate dall’arroganza del denaro, vallate affogate nel cemento, genti rassegnate e chine”. È una lettera firmata da Dolcino e Margherita, diventata manifesto per i ribelli anti-Tav della Valsusa. Chi l’abbia scritta non si sa, ma nessuno si pone la domanda. È bastato quel nome a farla circolare e a commuovere la gente. “Quel formicaio di uomini soli che ancora chiamate società ci ha tolto ogni gusto per le parole”, ma “la passione ci è tornata” vedendo “quegli stessi cantieri partigiani ripercorsi da donne, uomini e bambini ostili a un treno carico di sventure e difeso da mercenari in uniforme”. In un anno e mezzo appena, l’occupazione militare della Valsusa sotto il governo Berlusconi è già diventata mitologia tra i montanari, definiti “zotici”, “retrogradi”, “egoisti” e “nullafacenti” dai ministri romani. Dolcino e Margherita son tornati, come ne L’ultima valle di Carlo Sgorlon, penetrando non si sa come “nel nostro tempo di macchine e motori”, quasi senza accorgersi che la loro epoca era finita. Anche l’associazione nata dalla protesta ferroviaria ha preso un nome dolciniano: Credenza, che non vuol dire il posto del cibo, ma luogo della fiducia reciproca e dell’assemblea. “Prima tra noi valligiani c’era solo la sottomissione e il silenzio”, racconta Nicoletta Dosio di Bussoleno, “oggi ci si parla e si progetta. Ci son voluti i manganelli a fare il miracolo. Da secoli la sconfitta era così interiorizzata che i montanari pensavano fosse inutile combattere”.
Ma chi fu davvero Dolcino? “Molti lo stracapirono”, racconta il biellese Alfredo Bider, appassionato cultore della zona, “ma di certo fu un ribelle anticentralista e come tale divenne un eroe”. Sicuramente non fu un "frate", come sembra alludere Dante nella Commedia, ma solo un "fratello". Un "compagno" nel senso etimologico del termine, quello di "co-pain", cioè colui col quale si divide il pane, il testimone della comunione dei beni predicata dal cristianesimo originario. Soprattutto, il valsesiano Dolcino stava tutto nella tradizione delle sue montagne. Per questo la sua leggenda vive così a lungo, e conta forse più della sua storia. Sul Rubello, il luogo della mattanza, poco è cambiato. Stesse ventose scarpate tibetane, stesso dio di ghiaccio che sovrasta le risaie vercellesi come l’Ararat la Mesopotamia. Tutto indica una montagna speciale, indomita e alacre: gobbi ponti medievali sospesi su forre terrificanti, cimiteri di venerabili corporazioni - muratori e cappellai, banchieri e tessitori - detentrici di segreti, chiese ornate di simboli massonici (stelle, svastiche e compassi) messe a capolinea di percorsi esoterici serpeggianti tra acque sorgive e massi ciclopici di granito. E poi una ghirlanda di santuari, spesso enormi, sproporzionati per quegli spazi pure immensi: chiese come il Sacro Monte di Varallo formicolante di statue o l’eremo di Oropa, il più grande delle Alpi, dove abita una nera Madonna e prima, al tempo dei Celti, abitò la Grande Signora della Notte. Forse dietro a quell’enormità sacrale sta l’urgenza di tenere a bada l’anima inquieta di queste montagne che furono rifugio di elvezi, alemanni ed ebrei e videro le prime ribellioni anticlericali, le prime industrie tessili e le prime rivolte operaie d’Italia. L’ombra di Dolcino ne è l’incarnazione mitica. Un mito nato subito dopo la strage del Rubello, quando la vecchia leggenda celtica dei morti che cavalcano ogni anno le creste dei monti si attualizzò e divenne processione dei gàser, i Càtari sterminati dai papisti fra Alpi e Pirenei. Diventò - come spiega Carlo Ginzburg - rappresentazione dell’epopea dei "poveri cristi". Già nel Seicento la Chiesa dovette correre ai ripari e inventarsi il falso storico delle "leghe valsesiane", coalizioni spontanee di montanari contro l’eretico, definito brigante e nemico della povera gente. La grotta di Dolcino sul Rubello venne battezzata "Tana del Diavolo" e la Valsesia costellata di lapidi celebranti la sconfitta del demonio. Non bastò: la memoria dei vinti era ancora lunga. Quando all’inizio dell’Ottocento il Piemonte ricominciò a puzzare di zolfo per l’ingresso in campo di forze mazziniane, egualitariste e anticlericali, un deputato progressista al parlamento subalpino, Angelo Broferio, si risolse a rompere la visione demoniaca di Dolcino scrivendone come di uno che “alle nequizie del clero” aveva opposto “la santità del Vangelo”. La Curia rispose facendo costruire sul Rubello un bel santuario dedicato a San Bernardo. “Ma il cielo non fu d’accordo”, ghigna il valdese Burat, “e scaricò sulla messa inaugurale una tempesta così feroce che preti e chierichetti dovettero scappare a valle con ostensori e tabernacoli. I montanari urlarono al ritorno dei "Gàzzari" e a Cassato in Valsesia “la gente buttò la statua di Cristo nel fiume, dandogli poi fuoco e guadagnandosi l’epiteto sempiterno di Brusacrist”. Intanto, con l’industrializzazione e la nascita di una classe operaia, s’era scoperto un "altro" Cristo, quello che camminava con i poveri. È a questo punto che leggenda e socialismo si saldano. La montagna rilancia Dolcino per farne l’apostolo del movimento operaio. Nel suo nome si sciopera, si riuniscono i capi delle Leghe operaie, si stampano i primi fogli sovversivi e poi i giornali di area laico-progressista. Nel 1877, durante uno sciopero, i leader del sindacato tengono assemblea sul Rubello. Anche padroni come Emanuele Sella e la massoneria illuminata sentono il fascino del profeta dell’uguaglianza. Nel 1881 il Club alpino di Biella organizza una gita sul monte del massacro e persino il periodico conservatore “L’eco dell’industria” si chiede se sia giustificato “l’orrore che i più sentono verso Dolcino”, battutosi contro “i deplorevoli abusi della Curia romana”. Anche Antonio Labriola lo riabilita. E quando nel 1898 il generale Bava Beccaris a Milano fa sparare sui mendicanti e poi sulla folla, alcuni capi della protesta operaia, per non essere arrestati, vanno a rifugiarsi proprio sul Rubello, dove il primo maggio del 1900 innalzano una gigantesca bandiera rossa, visibile fino in pianura. Nel 1907 - per i sei secoli dalla strage - gli operai decidono di dedicare a Dolcino un obelisco sulla cima del monte Massaro, di fronte al Rubello. Il giornale della Curia esce listato a lutto, chiede che si recitino novene per il fallimento dell’iniziativa, ma l’11 agosto all’inaugurazione arrivano in diecimila, inclusi i rappresentanti delle logge massoniche con i loro simboli.
Con i massacri al fronte, la disfatta di Caporetto e la Rivoluzione russa, i socialisti organizzano marce della pace, di nuovo in nome di Dolcino. Ma ormai lo scontro di classe sta diventando duro e l’erma in pietra ne diventa il simbolo. Basta che la sorveglianza si allenti e l’obelisco viene preso a picconate.
Arriva il terrore fascista, Mussolini firma l’armistizio tra Stato e Chiesa dopo mezzo secolo di guerra fredda. Subito il monumento viene fatto saltare in aria durante un’esercitazione. Le Brigate nere fanno togliere le lapidi dedicate al ribelle e ammazzano a bastonate sindacalisti dolciniani. Fatalmente sono gli antifascisti a rioccupare quei luoghi durante la Resistenza. Nel libro Il Monte Rosa scese a Milano il capo partigiano Cino Moscatelli racconta che in Valsesia le brigate hanno addirittura ispirato la loro strategia alla leggenda degli agguati dolciniani contro l’armata vescovile.
Poi sulla leggenda scende il cloroformio democristiano, l’epopea viene cancellata dai libri di storia, finché negli anni Sessanta Dario Fo rilancia il montanaro rivoluzionario in Mistero Buffo, memorabile giullarata contro i poteri forti d’Italia. Ma dalla sinistra ufficiale non arriva nessuna riabilitazione. Per vedere un omaggio a Dolcino bisogna aspettare che si muovano i valdesi nel 1974, quando Tavo Burat fa mettere una lapide sui ruderi del monumento abbattuto e migliaia di montanari affluiscono alla cerimonia. Umberto Eco suggella il revival inserendo ne Il nome della rosa la storia di due frati dolciniani scampati al massacro.
Non bruciano più i roghi, ma l’ombra del ribelle fa paura ancora oggi. Quando nel 1980 una lapide a Dolcino viene ritrovata in uno scantinato del museo di Vercelli, la Sovrintendenza non dà il nulla osta per il ricollocamento. E quando nel 2000 la lastra di marmo viene finalmente reinaugurata in corso Libertà, il deputato Roberto Rosso, figlio delle risaie in forza tra i berluscones, protesta e chiede che l’omaggio a Dolcino vada tolto di mezzo, scatenando un codazzo di polemiche con manifesti anarchici, omaggi floreali del Partito radicale, insulti al sindaco, risse nella sinistra. La lapide rimarrà al suo posto, a segnare come un termometro di precisione la temperatura politica in Padania.
“Dietro la memoria di Dolcino c’è la rabbia della montagna per le sue sconfitte”, dice Chiara Fiorina che gestisce un piccolo bar in località Balma sopra Biella. “È dura, è sempre più dura vivere quassù. Abbiamo contro tutto, l’Inps, gli uffici sanitari, il Tesoro”. Se rimane, Chiara, è solo per l’affascinante energia del luogo, l’amore per una terra estrema che ha dato i natali a pacifisti e combattenti, grandi missionari e duri ghibellini, predicatori rivoluzionari e preti capaci di decriptare i silenzi dell’Alpe.
Trovi di tutto sui monti di Dolcino: soldati come Pietro Micca capaci di farsi saltare in aria per la patria, o come Antonio Gastaldi, passato ai briganti borbonici in nome della giustizia e della libertà. Grandi uomini d’ordine, ma anche geniali falsari come Samuele Farinet che batté moneta solo per togliere i montanari dalla miseria.