martedì 5 febbraio 2008

Contraddizioni in seno ai teodem

Contraddizioni in seno ai teodem
Il Manifesto del 5 febbraio 2008, pag. 1

di Ida Dominijanni

Era solo pochi mesi fa, quando il coro transatlantico teodem predicava che la civiltà di un popolo si misura dal rapporto con le donne: si trattava di combattere l'Isiam fingendosi femministissimi paladini delle donne velate. Non ci avevamo creduto; e a buon vedere. Oggi, Ratzinger intona e il coro teodem esegue: «La civiltà di un popolo si misura dalla sua capacità di servire la vita». Anche contro o a prescindere dalle donne? Sì, perché le donne sono, in atto o in potenza, delle assassine.



Era solo pochi mesi fa, e anche po­chi giorni, quando papa Ratzin­ger, all'università di Ratisbona co­me nel discorso mancato alla Sa­pienza di Roma, accusava la ragio­ne illuminista moderna di avere perso la luce della fede, e di avere spalancato le porte all'irrazionali­smo relativista postmoderno, abi­tato, fra gli altri, dalle femministe che distinguono la sessualità dalla procreazione e talvolta perfino dal genere. Oggi il refrain cambia, e pur di riunificare sesso, procreazione e matrimonio il coro teo­dem (si veda l'intervista del Foglio di domenica al cardinal Caffarra) invoca la ragione illuminista mo­derna contro il «collasso ontologi­co» postmoderno che ha spalanca­to le porte alla cultura abortista. E agita il diritto individualista mo­derno, che dovrebbe riconoscere al feto lo stesso statuto di un indivi­duo adulto, contro l'etica relazio­nale femminista che vede nella ge­stazione un rapporto inscindibile fra il feto e la madre e lascia a que­st'ultima la parola decisiva sulla sua prosecuzione.



Era solo pochi anni fa, quando il coro vaticano, teocon e teodem passò come un carrarmato sui de­sideri procreativi femminili e ma­schili, picchettandoli di divieti nel nome della salvaguardia della vita dell'embrione e alla faccia della salvaguardia della salute della don­na: c'è vita e vita evidentemente, e quando a gerarchizzarla è il Vatica­no non si rischia alcun collasso on­tologico. Si rischia in compenso il collasso giuridico, com'è chiaro dalle ultime sparate congiunte di alcuni ginecologi romani e di pa­pa Ratzinger, volte a fare rumoro­samente nebbia dove la 194 face­va sobriamente luce (si veda l'arti­colo di Carlo Flamigni che pubbli­chiamo oggi), pur di continuare a battere dove il dente duole: la pa­rola decisiva della madre (nonché del padre) sulla vita in potenza del feto.



Potremmo continuare con le contraddizioni in seno ai teodem. Ci fermiamo. C'è in questa loro campagna di appropriazione vio­lenta della parola sulla procreazio­ne e delle norme di classificazione della vita qualcosa di osceno e di macabro, che più che l'ingaggio della risposta colpo su colpo do­manda l'intervallo silenzioso della presa di distanza. Qui la contraddi­zione è dei media (si veda il Corsera di ieri), che ogni volta cascano nella trappola e aggiungono al danno la beffa, prendendosela con le donne che oggi non parla­no mentre negli anni Settanta sì che si facevano sentire. Come se altra parola femminile non potes­se essere conosciuta e riconosciu­ta, se non quella che ai tempi del dibattito sulla 194 si esprimeva in cortei, manifestazioni, rivendica­zioni.



Anche allora non c'era solo quel­la: dietro c'era il lavoro dell'autoco­scienza, che seppe fare dell'espe­rienza una fonte di sapere, del per­sonale una questione politica, del rapporto sessuale un continente da esplorare, delle verità scientifi­che Un campo da interrogare, di un primato naturale - quello sulla maternità e la messa al mondo del­la vita - un oggetto di ragione, di una relazione primaria - quella fra madre e feto - una base di diritto. Fra critica della ragione moderna e critica dei collassi postmoderni, quella parola femminile è stata se­minale, ha fatto cultura, governa la vita con maggiore saggezza del­la governance biopolitica che se­mina dappertutto guerra e distru­zione. E' contro la sua pacifica for­za, non contro la sua debolezza, contro il suo dire, non contro il suo tacere, che il coro teodem si accanisce e si dibatte, a costo di stonature che sfiorano il ridicolo dietro i paludamenti sacri e profa­ni che ostentano.



La campagna elettorale che si apre, anzi s'è già aperta o non s'è mai chiusa, non farà che aumenta­re i decibel: è quando la politica ha poco o niente da dire che la pa­rola passa ai proclami etici improvvisati, ai catechismi morali coman­dati, alle verità scientifiche usate come clave. Sta alla politica deci­dere se è in queste parole, o nella parola femminile, che vuole trova­re una risorsa di senso.