Il pericolo dell'ondata neoguelfa
La Repubblica del 5 febbraio 2008, pag. 1
di Aldo Schiavone
Un'onda "neoguelfa" -lunga, persistente, di fondo - sta scuotendo il Paese. Non trovo di meglio che questo aggettivo di sapore risorgimentale (ma la parola originaria arriva dal cuore tedesco e italiano dell'Europa fra dodicesimo e quattordicesimo secolo) per descrivere un atteggiamento culturale e politico che da qualche tempo si sta proponendo come uno dei poli del nostro dibattito pubblico. Un compatto movimento di idee che tende ad attribuire alla figura del Papa l'esercizio di una specie di protettorato "super partes" nei confronti dell'intera vita civile italiana, fino a fare del magistero della Chiesa il custode più alto della stessa unità morale della nazione.
E un pensiero forte e invasivo, che si riflette in mille segni e iniziative che stanno riempiendo le nostre cronache: il Foglio e le sue campagne ne sono diventati ormai il simbolo e la bandiera, capaci di mescolare con raffinata sapienza snobismo intellettuale e populismo mediatico (Giuliano Ferrara ha cosi completato il suo percorso, concluso per ora in una sorta di formula trinitaria, efficace ma non senza contraddizioni: Berlusconi in Italia, l'America nel mondo, il Papa su tutto - il Papa, si badi, non Dio, che vorrebbe dire ben altra cosa).
Aver scomodato un nome che viene addirittura dal nostro passato medievale, per definire l'orientamento cui mi sto riferendo, aiuta a capire come non vi sia niente di davvero nuovo nel suo nocciolo concettuale. Siamo invece di fronte al ripetersi di un'antica tentazione della storia politica e intellettuale italiana: quella del neoguelfismo come attitudine nazionale, definitivamente fissata con la Controriforma negli infelici esordi della nostra dimezzata modernità - quando a noi toccò la parrocchia, mentre gli altri, in Europa, costruivano gli Stati. «Non si può tenere stati secondo coscienza, perché (...) tutti sono violenti (...) e da questa regola non eccettuo (...) e manco è preti, la violenza de' quali è doppia, perché ci sforzano con le arme temporale e con le spirituale», così Guicciardini, nei Ricordi, intorno al 1528: la Francia ci aveva già invaso, e meno di venti anni dopo sarebbe iniziato il concilio di Trento.
Questa inclinazione a sottomettere il Paese al sentimento religioso storicamente dominante ha però sempre nascosto dentro di sé - nella sua lunga durata - un elemento oscuro, un radicato vissuto di inferiorità e di impotenza: la percezione che L'Italia fosse troppo fragile e debole per farcela da sola, e che ci fosse un insopprimibile bisogno di consegnarla nelle mani di una potenza più grande, più efficace e più solida di quanto apparissero le sue istituzioni e la sua vocazione civile: la forza universale del cattolicesimo e degli apparati che su di esso si fondano. Si è determinato così una specie di riflesso condizionato, che riaffiora nei momenti di crisi e di sconnessione. Esso spinge a rinunciare allo Stato, e ad affidarsi alla comunità dei fedeli (oggi irrobustita dall'apporto degli atei devoti). È il segno di una patologia, non ne è il rimedio: dobbiamo saperla curare, non abbandonarci a lei.
Il nome dell'Italia sembra ormai impronunciabile, se non accompagnato dall'evocazione del suo declino. Fra i molti - veri o presunti - degradi, quello della nostra cultura politica e della nostra etica pubblica sono certo i più visibili e pericolosi. Ed è nel vuoto lasciato aperto da queste ferite che trova spazio la suggestione neoguelfa: se lo Stato si dissolve nelle sue inadempienze, se il Parlamento diventa un'arena, se i partiti si decompongono nella mancanza di progetti e di idealità, se la misura della moralità si identifica con l'interesse privato o con il capriccio soggettivo, si metta fin dove possibile alloro posto la Chiesa e la sua dottrina: l'assemblea dei vescovi sarà comunque migliore delle riunioni di qualunque sgangherata maggioranza di governo.
Ora il problema è di riuscire a capire e a spiegare come in questa scelta none sbagliata tanto la preferenza in sé - e che quindi sia meglio anteporre Veltroni a Ruini, o Bobbio a Ratzinger, oppure il Consiglio dei ministri alla Cei -, no; è sbagliata l'idea stessa che sia comunque possibile, oggi, nelle condizioni date, una supplenza, una sostituzione (totale o parziale, esplicita o nascosta) della Chiesa e del suo magistero nei confronti dello Stato e del dibattito etico di una società complessa; che una religione - quale che sia, anche una religione di verità - possa occupare il posto della politica e del suo discorso, e mettere la sfera pubblica sotto tutela. Ci sarebbe, in una simile scelta, un attitudine così radicalmente antimoderna (attenzione: non di critica ad alcuni aspetti, anche fondamentali, della modernità, che è sempre benve-nuta, ma di contrapposizione disperata e radicale con essa), da renderla fallimentare e improponibile. E non è un caso se anche la Democrazia cristiana, negli anni del suo fulgore, ha evitato sempre di farla propria, decidendo di essere fino in fondo un partito politico, e non una congregazione di devoti.
Non sarà la Chiesa a salvare l'Italia, mettendola sotto la sua protezione. L'Italia si salverà da sola, se ne sarà capace, rigenerando la sua cultura politica e ricostruendo la sua etica pubblica. Ma la Chiesa potrebbe contribuire a rovinarla, se, nella pretesa di sostituirsi allo Stato approfittando della sua inconcludenza, volesse trasformarsi a sua volta in soggetto politico, in parte impropriamente opposta a un'altra parte, come accade appunto nelle cose politiche.
C'è tuttavia una ragionevole speranza che – a dispetto delle molte sollecitazioni - questa strada non verrà intrapresa. Tutto il Cristianesimo moderno si è formato nella separazione fra quel che è di Cesare e quel che è di Dio. Oggi per la Chiesa, per ogni credente, c'è più che mai bisogno di definire ancor meglio questi confini capitali, di proiettarli con convinzione su nuovi territori, non di confonderli o di cancellarli. È distinguendo, non oscurando, che la parola di Dio rigenera la sua forza. Questo vale anche per l'Italia, anche per noi, per quanto incerti si possa apparire. Il nostro smarrimento chiede rispetto, non tutori. Perché dopotutto non siamo indifesi, e, soprattutto, siamo diventati moderni.
La Repubblica del 5 febbraio 2008, pag. 1
di Aldo Schiavone
Un'onda "neoguelfa" -lunga, persistente, di fondo - sta scuotendo il Paese. Non trovo di meglio che questo aggettivo di sapore risorgimentale (ma la parola originaria arriva dal cuore tedesco e italiano dell'Europa fra dodicesimo e quattordicesimo secolo) per descrivere un atteggiamento culturale e politico che da qualche tempo si sta proponendo come uno dei poli del nostro dibattito pubblico. Un compatto movimento di idee che tende ad attribuire alla figura del Papa l'esercizio di una specie di protettorato "super partes" nei confronti dell'intera vita civile italiana, fino a fare del magistero della Chiesa il custode più alto della stessa unità morale della nazione.
E un pensiero forte e invasivo, che si riflette in mille segni e iniziative che stanno riempiendo le nostre cronache: il Foglio e le sue campagne ne sono diventati ormai il simbolo e la bandiera, capaci di mescolare con raffinata sapienza snobismo intellettuale e populismo mediatico (Giuliano Ferrara ha cosi completato il suo percorso, concluso per ora in una sorta di formula trinitaria, efficace ma non senza contraddizioni: Berlusconi in Italia, l'America nel mondo, il Papa su tutto - il Papa, si badi, non Dio, che vorrebbe dire ben altra cosa).
Aver scomodato un nome che viene addirittura dal nostro passato medievale, per definire l'orientamento cui mi sto riferendo, aiuta a capire come non vi sia niente di davvero nuovo nel suo nocciolo concettuale. Siamo invece di fronte al ripetersi di un'antica tentazione della storia politica e intellettuale italiana: quella del neoguelfismo come attitudine nazionale, definitivamente fissata con la Controriforma negli infelici esordi della nostra dimezzata modernità - quando a noi toccò la parrocchia, mentre gli altri, in Europa, costruivano gli Stati. «Non si può tenere stati secondo coscienza, perché (...) tutti sono violenti (...) e da questa regola non eccettuo (...) e manco è preti, la violenza de' quali è doppia, perché ci sforzano con le arme temporale e con le spirituale», così Guicciardini, nei Ricordi, intorno al 1528: la Francia ci aveva già invaso, e meno di venti anni dopo sarebbe iniziato il concilio di Trento.
Questa inclinazione a sottomettere il Paese al sentimento religioso storicamente dominante ha però sempre nascosto dentro di sé - nella sua lunga durata - un elemento oscuro, un radicato vissuto di inferiorità e di impotenza: la percezione che L'Italia fosse troppo fragile e debole per farcela da sola, e che ci fosse un insopprimibile bisogno di consegnarla nelle mani di una potenza più grande, più efficace e più solida di quanto apparissero le sue istituzioni e la sua vocazione civile: la forza universale del cattolicesimo e degli apparati che su di esso si fondano. Si è determinato così una specie di riflesso condizionato, che riaffiora nei momenti di crisi e di sconnessione. Esso spinge a rinunciare allo Stato, e ad affidarsi alla comunità dei fedeli (oggi irrobustita dall'apporto degli atei devoti). È il segno di una patologia, non ne è il rimedio: dobbiamo saperla curare, non abbandonarci a lei.
Il nome dell'Italia sembra ormai impronunciabile, se non accompagnato dall'evocazione del suo declino. Fra i molti - veri o presunti - degradi, quello della nostra cultura politica e della nostra etica pubblica sono certo i più visibili e pericolosi. Ed è nel vuoto lasciato aperto da queste ferite che trova spazio la suggestione neoguelfa: se lo Stato si dissolve nelle sue inadempienze, se il Parlamento diventa un'arena, se i partiti si decompongono nella mancanza di progetti e di idealità, se la misura della moralità si identifica con l'interesse privato o con il capriccio soggettivo, si metta fin dove possibile alloro posto la Chiesa e la sua dottrina: l'assemblea dei vescovi sarà comunque migliore delle riunioni di qualunque sgangherata maggioranza di governo.
Ora il problema è di riuscire a capire e a spiegare come in questa scelta none sbagliata tanto la preferenza in sé - e che quindi sia meglio anteporre Veltroni a Ruini, o Bobbio a Ratzinger, oppure il Consiglio dei ministri alla Cei -, no; è sbagliata l'idea stessa che sia comunque possibile, oggi, nelle condizioni date, una supplenza, una sostituzione (totale o parziale, esplicita o nascosta) della Chiesa e del suo magistero nei confronti dello Stato e del dibattito etico di una società complessa; che una religione - quale che sia, anche una religione di verità - possa occupare il posto della politica e del suo discorso, e mettere la sfera pubblica sotto tutela. Ci sarebbe, in una simile scelta, un attitudine così radicalmente antimoderna (attenzione: non di critica ad alcuni aspetti, anche fondamentali, della modernità, che è sempre benve-nuta, ma di contrapposizione disperata e radicale con essa), da renderla fallimentare e improponibile. E non è un caso se anche la Democrazia cristiana, negli anni del suo fulgore, ha evitato sempre di farla propria, decidendo di essere fino in fondo un partito politico, e non una congregazione di devoti.
Non sarà la Chiesa a salvare l'Italia, mettendola sotto la sua protezione. L'Italia si salverà da sola, se ne sarà capace, rigenerando la sua cultura politica e ricostruendo la sua etica pubblica. Ma la Chiesa potrebbe contribuire a rovinarla, se, nella pretesa di sostituirsi allo Stato approfittando della sua inconcludenza, volesse trasformarsi a sua volta in soggetto politico, in parte impropriamente opposta a un'altra parte, come accade appunto nelle cose politiche.
C'è tuttavia una ragionevole speranza che – a dispetto delle molte sollecitazioni - questa strada non verrà intrapresa. Tutto il Cristianesimo moderno si è formato nella separazione fra quel che è di Cesare e quel che è di Dio. Oggi per la Chiesa, per ogni credente, c'è più che mai bisogno di definire ancor meglio questi confini capitali, di proiettarli con convinzione su nuovi territori, non di confonderli o di cancellarli. È distinguendo, non oscurando, che la parola di Dio rigenera la sua forza. Questo vale anche per l'Italia, anche per noi, per quanto incerti si possa apparire. Il nostro smarrimento chiede rispetto, non tutori. Perché dopotutto non siamo indifesi, e, soprattutto, siamo diventati moderni.