Se la madre non conta
L'Unità del 4 febbraio 2008, pag. 1
di Vittoria Franco
Dopo Milano e la Lombardia, anche neonatologi di università statali e cattoliche di Roma pongono la questione della opportunità e della necessità etica di rianimare un feto vitale anche di estrema prematurità e - aggiungono - senza il consenso della madre.
La questione non è nuova sotto il profilo giuridico, ma è nuova proprio sotto il profilo etico. La legge è, infatti, chiara sul punto che tratta dell’aborto «terapeutico», quello a cui si ricorre dopo i primi 90 giorni di gestazione.
L’articolo afferma che esso può essere praticato «quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna» e quando «siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica». All’articolo 7 si dice ancora che, quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, la gravidanza può essere interrotta solo nel primo caso e «il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto».
Ciò che il legislatore non poteva sapere trent’anni fa, quando la legge è stata varata, è il fatto che la scienza e le tecniche avrebbero consentito di rianimare un feto anche di 22 settimane. Nella sua lungimiranza esso ha, infatti, evitato di porre limiti temporali e ha affidato la decisione a una valutazione medica fatta insieme con la paziente. Certamente la novità è rilevante e non la si può trascurare. E bene ha fatto la ministro Turco a chiedere un parere tecnico prima di dare indicazioni che ristabiliscano uniformità di criteri a cui ispirarsi.
Resta però il problema del consenso o meno della donna. Io credo che non si possa fare tutto obliterando il fatto che c’è un’altra volontà e che con la gravidanza si stabilisce una relazione insopprimibile tra la madre e il feto. Se diventa un obbligo rianimare il feto anche quando è altamente probabile che diventerà un bambino con gravi malformazioni, non si contraddice uno dei principi della legge 194 che tutela la libertà di decisione della madre e cha salvaguarda la sua vita fisica e psichica? Sostenere la legittimità di fare a meno del consenso della madre sempre e comunque a me sembra un primo passo verso lo svuotamento del principio fondamentale della legge, la maternità responsabile e consapevole.
Questa è una linea di ragionamento che parte dai fatti e che richiede una riflessione. Ma non si può non vedere che sono in campo altre posizioni con diversi intenti. Una consiste nell’uso della 194 come clava a cui ricorrere periodicamente per tenere alto il livello dello scontro ideologico. Si veda la polemica ancora in corso sulla moratoria sull’aborto, che assimila l’interruzione di gravidanza alla pena di morte. Una proposta aberrante. L’altra consiste nell’assunzione di un’etica della vita prescindendo dalle condizioni concrete delle persone. La vita, anche quella iniziale, viene collocata sopra ogni cosa, anteposta anche alla vita di coloro che sono già nati. Una concezione astratta che annulla e distrugge gli elementi relazionali sui quali l’etica si fonda e che entrano in campo con più forza proprio nel caso della nascita, della maternità, della perdita. Con la legge 40 sulla procreazione assistita si difende, ad esempio, la vita dell’embrione o del feto a tutti i costi, ma si impedisce a una coppia portatrice di malattie genetiche di avere figli con le tecniche riproduttive. Si pensa di semplificare in questo modo la scelta etica con un dovere astratto. Ma soprattutto, con i continui attacchi alla legge 194, si mira a indebolire quel concetto di autonomia della scelta di maternità che è il fondamento della facoltà morale della donna.
Credo che fra gli elementi di nuova civiltà politica e professionale vi sia anche quello di creare condizioni per una discussione il più possibile pacata su questioni difficili, ma che è necessario affrontare, come quelle bioetiche nell’ottica del rispetto di tutti i soggetti coinvolti.
L'Unità del 4 febbraio 2008, pag. 1
di Vittoria Franco
Dopo Milano e la Lombardia, anche neonatologi di università statali e cattoliche di Roma pongono la questione della opportunità e della necessità etica di rianimare un feto vitale anche di estrema prematurità e - aggiungono - senza il consenso della madre.
La questione non è nuova sotto il profilo giuridico, ma è nuova proprio sotto il profilo etico. La legge è, infatti, chiara sul punto che tratta dell’aborto «terapeutico», quello a cui si ricorre dopo i primi 90 giorni di gestazione.
L’articolo afferma che esso può essere praticato «quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna» e quando «siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica». All’articolo 7 si dice ancora che, quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, la gravidanza può essere interrotta solo nel primo caso e «il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto».
Ciò che il legislatore non poteva sapere trent’anni fa, quando la legge è stata varata, è il fatto che la scienza e le tecniche avrebbero consentito di rianimare un feto anche di 22 settimane. Nella sua lungimiranza esso ha, infatti, evitato di porre limiti temporali e ha affidato la decisione a una valutazione medica fatta insieme con la paziente. Certamente la novità è rilevante e non la si può trascurare. E bene ha fatto la ministro Turco a chiedere un parere tecnico prima di dare indicazioni che ristabiliscano uniformità di criteri a cui ispirarsi.
Resta però il problema del consenso o meno della donna. Io credo che non si possa fare tutto obliterando il fatto che c’è un’altra volontà e che con la gravidanza si stabilisce una relazione insopprimibile tra la madre e il feto. Se diventa un obbligo rianimare il feto anche quando è altamente probabile che diventerà un bambino con gravi malformazioni, non si contraddice uno dei principi della legge 194 che tutela la libertà di decisione della madre e cha salvaguarda la sua vita fisica e psichica? Sostenere la legittimità di fare a meno del consenso della madre sempre e comunque a me sembra un primo passo verso lo svuotamento del principio fondamentale della legge, la maternità responsabile e consapevole.
Questa è una linea di ragionamento che parte dai fatti e che richiede una riflessione. Ma non si può non vedere che sono in campo altre posizioni con diversi intenti. Una consiste nell’uso della 194 come clava a cui ricorrere periodicamente per tenere alto il livello dello scontro ideologico. Si veda la polemica ancora in corso sulla moratoria sull’aborto, che assimila l’interruzione di gravidanza alla pena di morte. Una proposta aberrante. L’altra consiste nell’assunzione di un’etica della vita prescindendo dalle condizioni concrete delle persone. La vita, anche quella iniziale, viene collocata sopra ogni cosa, anteposta anche alla vita di coloro che sono già nati. Una concezione astratta che annulla e distrugge gli elementi relazionali sui quali l’etica si fonda e che entrano in campo con più forza proprio nel caso della nascita, della maternità, della perdita. Con la legge 40 sulla procreazione assistita si difende, ad esempio, la vita dell’embrione o del feto a tutti i costi, ma si impedisce a una coppia portatrice di malattie genetiche di avere figli con le tecniche riproduttive. Si pensa di semplificare in questo modo la scelta etica con un dovere astratto. Ma soprattutto, con i continui attacchi alla legge 194, si mira a indebolire quel concetto di autonomia della scelta di maternità che è il fondamento della facoltà morale della donna.
Credo che fra gli elementi di nuova civiltà politica e professionale vi sia anche quello di creare condizioni per una discussione il più possibile pacata su questioni difficili, ma che è necessario affrontare, come quelle bioetiche nell’ottica del rispetto di tutti i soggetti coinvolti.