giovedì 20 dicembre 2007

Risorgimento scomunicato (1)

dal sito: http://www.radicali.it/newsletter/view.php?id=37072&numero=795&title=NOTIZIE%20RADICALI
Risorgimento scomunicato (1)

di Vittorio Gorresio

“Risorgimento scomunicato”, è un libro che Vittorio Gorresio scrisse nel 1957, e venne pubblicato nella collana “Stato e Chiesa”, curata da Ernesto Rossi per l’editore fiorentino Parenti. Un libro che aveva lo scopo di mettere in guardia, scrive Gorresio nella premessa, “contro gli eccessi e i fanatismi ai quali può accadere che si inducano i cosiddetti cattolici militanti. E’ difatti una storia del contrasto che rese tanto drammatico il Risorgimento, facendo nascere in Italia uno Stato scomunicato e maledetto da una Chiesa che per la durata di almeno mezzo secolo si rifiutò sempre di comprendere le esigenze vitali di una civile nazione moderna”. E ancora: “Lo specchio di quei tempi che la cronaca offre, mostrandoli agitati e quasi furibondi per opposte passioni, ci insegna d’altra parte che all’umore della piazza corrispondeva un turbamento nella cultura, nel costume, nei modi della vita, i quali tutti risentivano di una pericolosa distorsione, e si viziavano di una polemica esasperata sempre, talora assurda per un verso e per l’altro sacrilega…”.

Tutto ciò, osservava Gorresio, come conseguenza di un “funesto errore”, quello di voler risolvere il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa con una prova di forza: “Ma a conclusione del nostro esame non possiamo ci possiamo esimere dall’osservare che nel Risorgimento questo errore fu commesso dalla Chiesa, un clero che mancò di comprendere anche nelle più alte gerarchie; che mosso da spavento o accecato da prevenzioni, perccò verso le norme del vivere civile; e che alla fine si trovò escluso da un grande moto di progresso e di rinnovamento, avendo in pratica scomunicata l’aspirazione di tutto un popolo”.

Il libro, da tempo introvabile e mai più pubblicato, sarà un po’ il nostro feuilleton. Parla di cose di ieri che è bene rammemorare; e che valgono anche per l’oggi.

(Gu.Ve.)


Legislatori coraggiosi

Prima che Carlo Alberto concedesse lo Statuto, le prerogative e immunità ecclesiastiche erano enormi negli Stati sardi: spettavano alle curie vescovili le cause relative ai riti, agli sponsali, al matrimonio, alle decime, al patronato ecclesiastico, oltre a tutte le cause civili nelle quali fosse convenuto un chierico. Con poche restrizioni, il foro ecclesiastico perdurava anche nella giurisdizione penale. I luoghi di carcere preventivo e di pena per i chierici erano appartati: la reclusione per i chierici esisteva solo nel caso di pena a lavori forzati; se la condanna era di morte, la sentenza doveva essere notificata al vescovo il quale poteva appellarsi al Re, e in questo caso il Re doveva deferire la questione ad un consesso di tre vescovi.


Nel codice penale erano inoltre comminate pene gravissime – anche di morte e di ergastolo – contro chi con la parola e con gli scritti offendesse in qualche modo la religione, o recasse scandalo, o turbasse l’esercizio del culto. Il giudizio sui reati di eresia, di bestemmia, e di offesa alla religione era riservato alle curie vescovili. Durava il cosiddetto privilegio della competenza, onde un ecclesiastico non poteva essere privato del necessario a vivere né imprigionato per debiti. Salvo scarse eccezioni, durava il diritto di asilo nelle chiese, sui sagrati, nelle sagrestie, negli orti ecclesiastici chiusi da muro, siepi, steccati.


Il codice civile consentiva alla Chiesa di imporre oneri ai fedeli a vantaggio dei vescovadi, delle parrocchie e dei benefici, qualora non bastassero le oblazioni spontanee. I claustrali, anche se minorenni al tempo della pronuncia dei voti, avevano la facoltà di rinunciare ai propri beni presenti e futuri a favore della Chiesa e di disporne per testamento non appena raggiunta l’età di sedici anni. I beni da loro acquistati erano sgravati dal vincolo di usufrutto che la legge comune assegnava al padre sui beni avventizi dei figli. I parroci tenevano la registrazione degli atti civili, e i vescovi avevano giurisdizione sugli istituti di carità della diocesi: potevano ispezionarli, farsi rendere i conti, mutare gli amministratori, citarli in giudizio. In materia di stampa vigeva il diritto di censura ecclesiastica sulle pubblicazioni di natura non religiosa.


In materia di istruzione le tesi di argomento religioso da trattarsi nei pubblici esami universitari dovevano venire sottoposte ai vescovi.


Lo Statuto albertino aveva posto chiaramente le premesse dell’abolizione di questi privilegi nei suoi due articoli 24 e 58 che sancivano l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ed il principio che “la giustizia emana dal Re”. D’altra parte, stabilendo l’articolo 1 che “la Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola religione dello Stato”, sembrava essere implicito che con esso lo Stato riconosceva le leggi con le quali la Chiesa si governa. Era evidente d’altra parte come fosse necessario uscire dalla contraddizione, e in realtà in Piemonte era comune desiderio di tutti i partiti che a ciò si arrivasse d’accordo con la Santa Sede.


Soltanto la sinistra desiderava che lo Stato cogliesse l’occasione per affermare i suoi diritti anche in materia ecclesiastica, ma i liberali, pur convenendo che lo Stato poteva legiferare da solo sull’argomento, ritenevano che sarebbe stato colpevole – e politicamente pericoloso – turbare l’opinione pubblica arrivando a una rottura con Roma. Appariva del resto legittima la speranza, ed anzi la fiducia, in un’intesa. Si poteva pensare fosse logico che il papa avrebbe accordato al Piemonte di avere un diritto ecclesiastico non dissimile da quello dell’Austria, della Baviera, del Belgio, cioè da quello ormai vigente in quasi tutti gli Stati d’Europa, anche di sicure tradizioni cattoliche, dove ad esempio, il privilegio del foro era caduto con il consenso e la tolleranza della Santa Sede.


“Tuttavia”, bene osserva lo Jemolo, “lo stesso principio di conservazione impediva a Pio IX dopo la fuga a Gaeta ed il posto assunto nella politica europea del 1850, di facilitare il compito ai governanti piemontesi, di consentire loro di far contenti ad un tempo gli avversari, di sinistra, che volevano ad ogni costo riforme nella legislazione ecclesiastica, e di non avere ostile la massa dei cattolici, presentando quelle riforme col suggello di un’autorizzazione pontificia”. Aveva scritto Gioberti, nel “Rinnovamento”, che la Santa Sede era mossa dall’intento di scalzare e indebolire lo Statuto; rendere esosa quella provincia ai governi retrogradi, porgere all’Austria un pretesto pinzochero d’ingerirsi, accender le discordie e la guerra civile. Tanto a Roma dispiace – concludeva Gioberti – che in un angolo d’Italia sopravviva e dia luce una favilla di libertà”.


Era perciò purtroppo chiaro che nessun negoziato, per quanto fosse stato abilmente condotto, avrebbe potuto far approdare ad un successo. Lo aveva in ogni modo cominciato il ministro sardo Domenico Pareto; vi si provò il Rosmini proponendo un progetto di concordato generale; si fece il tentativo di affidare le conversazioni a Cesare Balbo, inviato a questo scopo presso Pio IX, che stava allora esule a Gaeta e poi a Portici. Tutti fallirono, e la penosa eredità fu raccolta dal conte Giuseppe Siccardi,la cui missione in verità era stata resa più difficile ancora: egli infatti oltre ad essere portatore della richiesta che il papa aderisse ai mutamenti che si volevano introdurre nella legislazione ecclesiastica, doveva esprimere il desiderio del governo liberale piemontese che il papa esortasse i vescovi di Torino e di Asti – i monsignori Franzoni e Artico – ad abbandonare le proprie sedi.


Siccardi non fu accolto molto bene. Si accorse subito, come scrisse a D’Azeglio,presidente del consiglio dei ministri, che regnava nella corte pontifica “un grave malcontento per le cose nostre, a motivo specialmente delle discussioni che tratto tratto sorgono nella Camera dei Deputati relativamente a persone e materie ecclesiastiche…Il Santo Padre lamenta, si può dire, ogni giorno, l’avviamento delle cose presso di noi, e va dicendo agli uni e agli altri pregate per il Piemonte”. Un’altra volta il medesimo Siccardi riferiva che alcuni cardinali si erano informati chi fossero quel Siccardi e il suo segretario Mazzé, e poiché “qualche anima buona disse loro che eravamo gente dabbene e col timor di Dio, fecero le più grandi meraviglie del come mai, essendo tali, avessimo accettato una missione così detestabile”.


Anche questa missione fallì in pieno. Per quanto riguardava le due sedi vescovili di Torino e di Asti, il cardinale Antonelli, segretario di Stato, avrebbe voluto che il governo liberale piemontese dimostrasse la consapevolezza dei due prelati, che per suo conto considerava fedeli assertori dei diritti canonici, fingendo di ignorare che monsignor Franzoni l’anno prima aveva condotto una vivace campagna polemica contro Pio IX e il suo liberalismo: con un empio bisticcio di parole chiamava il papa Pitu IX, e pitu in piemontese significa tacchino, ed è anche usato in senso osceno.


Per quanto riguardava la questione del concordato, la Santa Sede diede incarico delle trattative ad un certo monsignor Catterini, il quale sciorinò dottrine di diritto ecclesiastico tali che avrebbero potuto apparire “eccessive anche in altri tempi”, come scrisse il Siccardi riferendone a Torino. Monsignor Catterini sosteneva per esempio spettare al papa di giudicare un vescovo accusato di qualunque delitto, e i magistrati laici non dovevano ingerirsene, fosse pure andata di mezzo la sicurezza dello Stato. In sostanza, monsignor Catterini chiedeva benefici maggiori non solo di quelli riconosciuti alla Chiesa in qualsivoglia Stato europeo, ma anche di quelli che la Chiesa godeva nel regno sardo anteriormente allo Statuto albertino.


Chi proponeva tali condizioni, evidentemente, non voleva trattare, ed il Siccardi, di ciò persuaso, prese congedo dai cardinali e dai monsignori di Portici il 23 novembre 1849. Il 18 del mese successivo, su proposta di D’Azeglio, era nominato dal Re ministro guardasigilli. In quella nomina c’era già un’indicazione dei propositi del governo piemontese in materia di legislazione ecclesiastica, ma gioverà avvertire come la battaglia legislativa liberale fosse condotta dal moderato governo d’Azeglio contro la Chiesa, soltanto in forza di uno spirito pratico, all’infuori di ogni proclamazione di principio. Il concetto di separazione dei poteri, il cavourriano principio di “libera Chiesa in libero Stato”, appariva a D’Azeglio teoricamente accettabile, ma non entrò forse mai nel sistema del suo governo, ispirato piuttosto a un temperato regalismo.


D’Azeglio in fondo, era partecipe del cattolicesimo tradizionale. Non era un credente, ma basta la sua corrispondenza con la moglie, col Rendu, col Pantaleoni, col Giorgini, a testimoniare una sua continua ansia irrequieta circa il problema dei rapporti fra religione e politica, e soprattutto una sua costante preoccupazione che il conflitto fra lo Stato e la Chiesa si potesse risolvere in un danno per la religione. La forza delle cose costrinse proprio lui ad affrontare per primo la lotta con l’episcopato e con Roma: lui, che pure aveva fatto una passione per Pio IX e che aveva posto la sua spada di valoroso al servizio della Santa Sede.


Intraprese la lotta con rammarico, convinto com’era, scrisse a sua moglie, che essa “nel popolo scuote certe idee che avrebbero invece bisogno di acquistare forza”, ma quel rammarico non gli impedì di avere fermezza nei momenti decisivi, anche perché tendeva a vedere nei problemi da risolvere non tanto una questione di idee quanto di istituzioni. “Caro – scriveva al celebre suo fratello gesuita che gli aveva sostenuto l’incompatibilità dell’idea cattolica con l’idea liberale – qui si tratta di leggi, di commercio, di istruzione e non di questioni teologiche”.


La Santa Sede, in ogni modo, non la intendeva in questo senso, e non appena ebbe la certezza che il nuovo guardasigilli liberale si stava proponendo di risolvere il problema unilateralmente, rinunciando cioè al preventivo accordo con il Papato, fece subito appello, contro il Piemonte liberale, all’aiuto materiale delle grandi e delle piccole potenze. Erano gli anni che i due grandi, quelli che più contavano per il Papato, l’Austria cioè e la Francia, stavano avviandosi sulle strade dell’ortodossia cattolica, sicché l’audacia del progetto piemontese di affrancarsi in nome del liberalismo dalle intromissioni ecclesiastiche ne viene ad apparire tanto maggiore.


In una lettera confidenziale diretta da Massimo D’Azeglio a sir Ralph Abercromby, ministro d’Inghilterra a Torino, ci è conservata la notizia dell’appello papale allo straniero:

“J’avais été averti – scrive DìAzeglio – que la Cour de Rome allait s’adresser aux quatre Puissances pour qu’elles lui pretassent main forte contre nous, dans moère fois qu’on se serait melé de forcer la main à quelqu’un pour un Concordat, je n’avais pas ajouté foi à cette nouvelle. M. de Pralormo m’écrit pourtant de Paris que la demande a été faite. Il parait que l’Espagne a répondu très froidement. Pour ce qui est de Naples, Vienne et Paris nous savons à quoi nous en tenir, quant aux intentions du moins. Malgré cela je ne me sens pas effrayé. M. de la Hitte a tenu à M. de Pralormo un étrange discours, en désapprouvant tout ce qui s’est fait dernièrement ici et en laissant comprende que la France purrait etre forche d’intervenir. Vous savez que le Journal des Débats a fait un long artiche en notre faveur. Je sais positivement qu’on l’a reprimandé sévèrement. Tout cela est dégoutant. On nous accuse de provoquer, de comploter…Je vais faire répondre à Paris que nos affaires intérieurs, et surtout ecclésiastiques, nous entendons les faire da noi; et puis nous verrons veuir”.


(1. segue)