Io araba stuprata e condannata
L'Unità del 30 novembre 2007, pag. 1
di Daniel Howden
Una giovane è stata condannata a 200 frustate dopo essere stata stuprata da un branco di violentatori. Il mondo occidentale ha manifestato profonda disapprovazione. Disapprovazione che, a sua volta, ha mandato su tutte le furie l'establishment saudita. Ora per la prima volta questa giovane donna racconta la sua tragica avventura. In Arabia Saudita la conoscono semplicemente con l'appellativo di «ragazza di Qatif». È una adolescente vittima di una violenza di gruppo e poi umiliata, prima dalla polizia e poi dalla giustizia del suo Paese. Il suo caso è finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo creando profondo imbarazzo alla casa reale saudita.
Per il ministro saudita della Giustizia è semplicemente una adultera la cui vicenda viene strumentalizzata per criticare la monarchia saudita. Per gran parte del resto del mondo è il simbolo di tutto quello che non va in Arabia Saudita. Oggi la giovane vive praticamente agli arresti domiciliari. Non può parlare con nessuno e può essere arrestata in qualunque momento. Gli spostamenti della sua famiglia sono controllati dalla polizia religiosa e le telefonate sono intercettate. Il suo avvocato, il più eminente sostenitore dei diritti umani in Arabia Saudita, Abd al-Rahman al-Lahem, è stato sospeso. Gli hanno sequestrato il passaporto e la prossima settimana lo attende un procedimento disciplinare che potrebbe portare alla sua cancellazione dell'ordine degli avvocati. Il reato della «ragazza di Qatif» pare sia stato quello di rifiutarsi di tenere la bocca chiusa riguardo a quanto le era capitato. La ragazza 19enne ha tentato prima di far processare i sette uomini che l'avevano violentata poi ha protestato pubblicamente quando il tribunale l'ha condannata a subire 90 frustate per «promiscuità», il reato consistente nell'apparire in pubblico con un uomo che non fa parte della propria famiglia. I servizi apparsi sui media sauditi, in genere severamente censurati, hanno mandato su tutte le furie le autorità. Il tribunale ha inasprito la pena portandola a 200 frustate e sei mesi di prigione. La sentenza non è stata ancora eseguita. Il destino della giovane è diventato anche un tema della campagna presidenziale Usa in quanto i candidati si sono affrettati a denunciare il suo trattamento come «barbaro» e il principe Saud al-Faisal è stato costretto, suo malgrado, a rispondere a domande ostili in occasione dei colloqui di pace sul Medio Oriente che hanno avuto luogo ad Annapolis qualche giorno fa. L'Independent è riuscito ad entrare in possesso di una dichiarazione nella quale la ragazza descrive l'aggressione, le difficoltà incontrate a convincere la polizia a fare qualcosa e le strazianti udienze in tribunale. Il suo dramma è iniziato con una telefonata: «Avevo un rapporto con qualcuno al telefono», ha raccontato a Human Rights Watch. «Avevamo entrambi sedici anni. Non lo avevo mai incontrato prima. Conoscevo solo la sua voce. Ha cominciato a minacciarmi e mi sono messa paura. Mi ha minacciato di dire alla mia famiglia del nostro rapporto. A seguito delle minacce e proprio perché avevo paura ho accettato di dargli una mia foto». Qualche mese più tardi, ha detto la giovane, dopo che si era sposata con un altro uomo, ha cominciato a temere che la foto potesse essere usata in qualche modo e ha chiesto al ragazzo di restituirgliela. Il ragazzo ha accettato a condizione di poterla incontrare e di poter fare un giro in macchina con lei. La giovane, pur riluttante, ha accettato di incontrare il ragazzo in un mercato non lontano da casa sua. Stavano tornando a casa in auto, dopo aver atto un giro, quando una vettura si è fermata davanti a loro. «Ho detto al ragazzo che stava con me di non aprire la portiera, ma lui ha aperto. Li ha fatti salire. Mi sono messa ad urlare». Lei e il suo accompagnatore sono stati portati in un luogo isolato dove sono stati entrambi violentati molte volte. «Mi hanno costretta a scendere dall'auto», ha detto la ragazza. «Mi hanno spinto con forza. Ho urlato con quanto fiato avevo in gola "dove mi state portando? Potrei essere vostra sorella". Mi hanno portato in un posto buio. Poi sono arrivati due uomini. Il primo uomo, che era armato di coltello, mi ha violentato. Ero distrutta. Se avessi cercato di scappare non avrei saputo nemmeno dove andare. Ho cercato di respingerli, ma non ci sono riuscita. In fondo al cuore non sentivo nulla. Per due ore li ho implorati di portarmi a casa». Poi l'ha violentata anche il secondo uomo e poi ancora un terzo. «È stata una cosa di una violenza inaudita», ha detto la giovane. Nelle ore seguenti gli aggressori hanno detto alla ragazza che sapevano che era sposata. È stata violentata da un quarto uomo e poi da un quinto. «Il quinto mi ha scattato una foto in quelle condizioni. Ho tentato di coprirmi la faccia, ma me lo hanno impedito».
Sebbene la pubblica accusa avesse chiesto il massimo della pena per i violentatori, il tribunale di Qatif ne ha condannati quattro ad una pena variabile da uno a cinque anni di reclusione e da 80 a 1.000 frustate. Sono stati giudicati colpevoli di sequestro di persona perché apparentemente la pubblica accusa non è riuscita a dimostrare la violenza carnale. Le immagini registrate con il cellulare sono state esibite in tribunale ma, secondo il suo avvocato, i giudici le hanno ignorate. Il suo dramma è proseguito anche dopo il quinto stupro. Altri due uomini, uno dei quali a volto coperto, sono entrati nella stanza e l'hanno violentata. La ragazza ha chiesto più volte che ora era e le e' stato risposto che era l'una del mattino. Dopo, tutti e sette gli uomini sono ritornati e l'hanno violentata ancora una volta. «Poi mi hanno riportato a casa. Mi hanno portato con la loro auto. Hanno preso il mio cellulare e mi hanno detto che se lo avessi voluto indietro li avrei dovuti chiamare. Hanno frugato nel mio portafoglio e hanno visto la foto di mio marito. Quando sono scesa dall'auto non riuscivo nemmeno a camminare. Ho suonato il campanello e mia madre ha aperto la porta. Mi ha detto "hai un'aria stanca". Pensava che fossi stata con mio marito. Per una settimana non ho toccato cibo. Solo acqua. Non ho detto nulla a nessuno. Non riuscivo a dormire senza prendere dei sonniferi. Nel sonno vedevo le loro facce». Ai sensi della rigida interpretazione saudita della legge della sharia, le donne non possono comparire in pubblico in compagnia di uomini che non facciano parte della loro famiglia. Inoltre spesso in Arabia Saudita le donne sono condannate alla fustigazione e persino a morte per adulterio o per altri reati. Oltre agli ostacoli presenti in un Paese nel quale la condizione femminile è probabilmente la peggiore del mondo, la ragazza apparteneva anche alla minoranza sciita perseguitata, mentre i suoi aggressori erano sunniti. Questa diversa appartenenza settaria ha giocato un ruolo decisivo nei successivi e drammatici sviluppi della vicenda. «I criminali hanno cominciato a parlare dello stupro nel mio quartiere. Pensavano che mio marito avrebbe chiesto il divorzio. Volevano distruggere la mia reputazione. Avevo tentato di sistemare le cose facendomi restituire la foto ed era accaduta una cosa molto peggiore». (...). Contrariamente alle previsioni degli aggressori, il marito della ragazza non ha chiesto il divorzio quando è venuto a sapere della violenza subita dalla moglie e si è rivolto alla magistratura per ottenere giustizia.
Suo marito ricorda il senso di frustrazione quando vedeva gli aggressori della moglie che se ne andavano in giro liberi. «Due dei criminali passeggiavano per il quartiere proprio davanti a me. Partecipavano a funerali e matrimoni. I poliziotti avrebbero dovuto arrestarli per rispetto nei nostri confronti. Ho telefonato alla polizia e ho detto, trovate una soluzione. Quei banditi girano liberi per la strada. E se tentassero di rapirla ancora una volta?. L'agente di polizia mi ha risposto "valli a cercare e svolgi tu una indagine"». Ed è quanto ha fatto. Ha telefonato quattro volte alla polizia, ma quando è iniziato il processo è continuato il dramma della giovane donna. «I giudici mi urlavano e mi insultavano. Il giudice non ha permesso a mio marito di entrare in aula con me. Il giudice mi ha dato della bugiarda perché non ricordavo bene le date. Continuavano a dire "perché sei uscita da casa? Perché non lo hai detto a tuo marito?"». «Alla seconda udienza mi hanno chiamato nella sala d'attesa nella quale mi trovavo e sono entrata in aula con mio marito. Hanno condannato alcuni dei miei violentatori a cinque anni, altri a tre. Io pensavo che questa gente non avesse nemmeno il diritto di vivere. Pensavo che gli avrebbero dato almeno 20 anni. Pregavo perché morissero. Poi il giudice mi ha detto che mi condannava a subire 90 frustate. "Devi ringraziare Dio se non finisci in prigione". Ho chiesto perché e mi ha risposto "lo sai bene il perché". Perché "frequentare uomini non della famiglia genera il male". Mi guardavano tutti come se fossi dalla parte del torto. Non potevo continuare a studiare. Volevo morire». Il dramma non è finito. La «ragazza di Qatif» e suo marito hanno un futuro incerto. La giovane è stata aggredita dal fratello che, stando alle voci raccolte, avrebbe tentato di ucciderla. Il suo avvocato, Al-Lahem, è convinto che potrebbe essere perseguita dagli estremisti sunniti e condotta dinanzi ai tribunali della sharia. Il modo spaventoso in cui è stata trattata è emblematicamente sintetizzato dalle parole del marito e dal comportamento dei giudici in occasione della prima condanna. «Era come se fosse lei la criminale», ha ricordato il marito. «Quando i giudizi hanno pronunciato la sentenza di condanna, ho chiesto loro 'non avete alcuna dignità"?».
NOTE
The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
L'Unità del 30 novembre 2007, pag. 1
di Daniel Howden
Una giovane è stata condannata a 200 frustate dopo essere stata stuprata da un branco di violentatori. Il mondo occidentale ha manifestato profonda disapprovazione. Disapprovazione che, a sua volta, ha mandato su tutte le furie l'establishment saudita. Ora per la prima volta questa giovane donna racconta la sua tragica avventura. In Arabia Saudita la conoscono semplicemente con l'appellativo di «ragazza di Qatif». È una adolescente vittima di una violenza di gruppo e poi umiliata, prima dalla polizia e poi dalla giustizia del suo Paese. Il suo caso è finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo creando profondo imbarazzo alla casa reale saudita.
Per il ministro saudita della Giustizia è semplicemente una adultera la cui vicenda viene strumentalizzata per criticare la monarchia saudita. Per gran parte del resto del mondo è il simbolo di tutto quello che non va in Arabia Saudita. Oggi la giovane vive praticamente agli arresti domiciliari. Non può parlare con nessuno e può essere arrestata in qualunque momento. Gli spostamenti della sua famiglia sono controllati dalla polizia religiosa e le telefonate sono intercettate. Il suo avvocato, il più eminente sostenitore dei diritti umani in Arabia Saudita, Abd al-Rahman al-Lahem, è stato sospeso. Gli hanno sequestrato il passaporto e la prossima settimana lo attende un procedimento disciplinare che potrebbe portare alla sua cancellazione dell'ordine degli avvocati. Il reato della «ragazza di Qatif» pare sia stato quello di rifiutarsi di tenere la bocca chiusa riguardo a quanto le era capitato. La ragazza 19enne ha tentato prima di far processare i sette uomini che l'avevano violentata poi ha protestato pubblicamente quando il tribunale l'ha condannata a subire 90 frustate per «promiscuità», il reato consistente nell'apparire in pubblico con un uomo che non fa parte della propria famiglia. I servizi apparsi sui media sauditi, in genere severamente censurati, hanno mandato su tutte le furie le autorità. Il tribunale ha inasprito la pena portandola a 200 frustate e sei mesi di prigione. La sentenza non è stata ancora eseguita. Il destino della giovane è diventato anche un tema della campagna presidenziale Usa in quanto i candidati si sono affrettati a denunciare il suo trattamento come «barbaro» e il principe Saud al-Faisal è stato costretto, suo malgrado, a rispondere a domande ostili in occasione dei colloqui di pace sul Medio Oriente che hanno avuto luogo ad Annapolis qualche giorno fa. L'Independent è riuscito ad entrare in possesso di una dichiarazione nella quale la ragazza descrive l'aggressione, le difficoltà incontrate a convincere la polizia a fare qualcosa e le strazianti udienze in tribunale. Il suo dramma è iniziato con una telefonata: «Avevo un rapporto con qualcuno al telefono», ha raccontato a Human Rights Watch. «Avevamo entrambi sedici anni. Non lo avevo mai incontrato prima. Conoscevo solo la sua voce. Ha cominciato a minacciarmi e mi sono messa paura. Mi ha minacciato di dire alla mia famiglia del nostro rapporto. A seguito delle minacce e proprio perché avevo paura ho accettato di dargli una mia foto». Qualche mese più tardi, ha detto la giovane, dopo che si era sposata con un altro uomo, ha cominciato a temere che la foto potesse essere usata in qualche modo e ha chiesto al ragazzo di restituirgliela. Il ragazzo ha accettato a condizione di poterla incontrare e di poter fare un giro in macchina con lei. La giovane, pur riluttante, ha accettato di incontrare il ragazzo in un mercato non lontano da casa sua. Stavano tornando a casa in auto, dopo aver atto un giro, quando una vettura si è fermata davanti a loro. «Ho detto al ragazzo che stava con me di non aprire la portiera, ma lui ha aperto. Li ha fatti salire. Mi sono messa ad urlare». Lei e il suo accompagnatore sono stati portati in un luogo isolato dove sono stati entrambi violentati molte volte. «Mi hanno costretta a scendere dall'auto», ha detto la ragazza. «Mi hanno spinto con forza. Ho urlato con quanto fiato avevo in gola "dove mi state portando? Potrei essere vostra sorella". Mi hanno portato in un posto buio. Poi sono arrivati due uomini. Il primo uomo, che era armato di coltello, mi ha violentato. Ero distrutta. Se avessi cercato di scappare non avrei saputo nemmeno dove andare. Ho cercato di respingerli, ma non ci sono riuscita. In fondo al cuore non sentivo nulla. Per due ore li ho implorati di portarmi a casa». Poi l'ha violentata anche il secondo uomo e poi ancora un terzo. «È stata una cosa di una violenza inaudita», ha detto la giovane. Nelle ore seguenti gli aggressori hanno detto alla ragazza che sapevano che era sposata. È stata violentata da un quarto uomo e poi da un quinto. «Il quinto mi ha scattato una foto in quelle condizioni. Ho tentato di coprirmi la faccia, ma me lo hanno impedito».
Sebbene la pubblica accusa avesse chiesto il massimo della pena per i violentatori, il tribunale di Qatif ne ha condannati quattro ad una pena variabile da uno a cinque anni di reclusione e da 80 a 1.000 frustate. Sono stati giudicati colpevoli di sequestro di persona perché apparentemente la pubblica accusa non è riuscita a dimostrare la violenza carnale. Le immagini registrate con il cellulare sono state esibite in tribunale ma, secondo il suo avvocato, i giudici le hanno ignorate. Il suo dramma è proseguito anche dopo il quinto stupro. Altri due uomini, uno dei quali a volto coperto, sono entrati nella stanza e l'hanno violentata. La ragazza ha chiesto più volte che ora era e le e' stato risposto che era l'una del mattino. Dopo, tutti e sette gli uomini sono ritornati e l'hanno violentata ancora una volta. «Poi mi hanno riportato a casa. Mi hanno portato con la loro auto. Hanno preso il mio cellulare e mi hanno detto che se lo avessi voluto indietro li avrei dovuti chiamare. Hanno frugato nel mio portafoglio e hanno visto la foto di mio marito. Quando sono scesa dall'auto non riuscivo nemmeno a camminare. Ho suonato il campanello e mia madre ha aperto la porta. Mi ha detto "hai un'aria stanca". Pensava che fossi stata con mio marito. Per una settimana non ho toccato cibo. Solo acqua. Non ho detto nulla a nessuno. Non riuscivo a dormire senza prendere dei sonniferi. Nel sonno vedevo le loro facce». Ai sensi della rigida interpretazione saudita della legge della sharia, le donne non possono comparire in pubblico in compagnia di uomini che non facciano parte della loro famiglia. Inoltre spesso in Arabia Saudita le donne sono condannate alla fustigazione e persino a morte per adulterio o per altri reati. Oltre agli ostacoli presenti in un Paese nel quale la condizione femminile è probabilmente la peggiore del mondo, la ragazza apparteneva anche alla minoranza sciita perseguitata, mentre i suoi aggressori erano sunniti. Questa diversa appartenenza settaria ha giocato un ruolo decisivo nei successivi e drammatici sviluppi della vicenda. «I criminali hanno cominciato a parlare dello stupro nel mio quartiere. Pensavano che mio marito avrebbe chiesto il divorzio. Volevano distruggere la mia reputazione. Avevo tentato di sistemare le cose facendomi restituire la foto ed era accaduta una cosa molto peggiore». (...). Contrariamente alle previsioni degli aggressori, il marito della ragazza non ha chiesto il divorzio quando è venuto a sapere della violenza subita dalla moglie e si è rivolto alla magistratura per ottenere giustizia.
Suo marito ricorda il senso di frustrazione quando vedeva gli aggressori della moglie che se ne andavano in giro liberi. «Due dei criminali passeggiavano per il quartiere proprio davanti a me. Partecipavano a funerali e matrimoni. I poliziotti avrebbero dovuto arrestarli per rispetto nei nostri confronti. Ho telefonato alla polizia e ho detto, trovate una soluzione. Quei banditi girano liberi per la strada. E se tentassero di rapirla ancora una volta?. L'agente di polizia mi ha risposto "valli a cercare e svolgi tu una indagine"». Ed è quanto ha fatto. Ha telefonato quattro volte alla polizia, ma quando è iniziato il processo è continuato il dramma della giovane donna. «I giudici mi urlavano e mi insultavano. Il giudice non ha permesso a mio marito di entrare in aula con me. Il giudice mi ha dato della bugiarda perché non ricordavo bene le date. Continuavano a dire "perché sei uscita da casa? Perché non lo hai detto a tuo marito?"». «Alla seconda udienza mi hanno chiamato nella sala d'attesa nella quale mi trovavo e sono entrata in aula con mio marito. Hanno condannato alcuni dei miei violentatori a cinque anni, altri a tre. Io pensavo che questa gente non avesse nemmeno il diritto di vivere. Pensavo che gli avrebbero dato almeno 20 anni. Pregavo perché morissero. Poi il giudice mi ha detto che mi condannava a subire 90 frustate. "Devi ringraziare Dio se non finisci in prigione". Ho chiesto perché e mi ha risposto "lo sai bene il perché". Perché "frequentare uomini non della famiglia genera il male". Mi guardavano tutti come se fossi dalla parte del torto. Non potevo continuare a studiare. Volevo morire». Il dramma non è finito. La «ragazza di Qatif» e suo marito hanno un futuro incerto. La giovane è stata aggredita dal fratello che, stando alle voci raccolte, avrebbe tentato di ucciderla. Il suo avvocato, Al-Lahem, è convinto che potrebbe essere perseguita dagli estremisti sunniti e condotta dinanzi ai tribunali della sharia. Il modo spaventoso in cui è stata trattata è emblematicamente sintetizzato dalle parole del marito e dal comportamento dei giudici in occasione della prima condanna. «Era come se fosse lei la criminale», ha ricordato il marito. «Quando i giudizi hanno pronunciato la sentenza di condanna, ho chiesto loro 'non avete alcuna dignità"?».
NOTE
The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto