venerdì 14 dicembre 2007

Io araba stuprata e condannata

Io araba stuprata e condannata

L'Unità del 30 novembre 2007, pag. 1

di Daniel Howden

Una giovane è stata condanna­ta a 200 frustate dopo essere stata stuprata da un branco di violentatori. Il mondo occidentale ha manifestato profonda disapprova­zione. Disapprovazione che, a sua volta, ha mandato su tutte le furie l'establishment saudita. Ora per la prima volta questa giovane donna racconta la sua tragica avventura. In Arabia Saudita la conoscono semplicemente con l'appellativo di «ragazza di Qatif». È una adole­scente vittima di una violenza di gruppo e poi umiliata, prima dalla polizia e poi dalla giustizia del suo Paese. Il suo caso è finito sulle pri­me pagine dei giornali di tutto il mondo creando profondo imba­razzo alla casa reale saudita.



Per il ministro saudita della Giustizia è semplicemente una adultera la cui vicen­da viene strumentalizzata per criticare la monarchia saudita. Per gran parte del re­sto del mondo è il simbolo di tutto quel­lo che non va in Arabia Saudita. Oggi la giovane vive praticamente agli arresti domiciliari. Non può parlare con nessuno e può essere arrestata in qualun­que momento. Gli spostamenti della sua famiglia sono controllati dalla polizia re­ligiosa e le telefonate sono intercettate. Il suo avvocato, il più eminente sostenito­re dei diritti umani in Arabia Saudita, Abd al-Rahman al-Lahem, è stato sospe­so. Gli hanno sequestrato il passaporto e la prossima settimana lo attende un pro­cedimento disciplinare che potrebbe portare alla sua cancellazione dell'ordine de­gli avvocati. Il reato della «ragazza di Qa­tif» pare sia stato quello di rifiutarsi di te­nere la bocca chiusa riguardo a quanto le era capitato. La ragazza 19enne ha tenta­to prima di far processare i sette uomini che l'avevano violentata poi ha protesta­to pubblicamente quando il tribunale l'ha condannata a subire 90 frustate per «promiscuità», il reato consistente nell'apparire in pubblico con un uomo che non fa parte della propria famiglia. I ser­vizi apparsi sui media sauditi, in genere severamente censurati, hanno mandato su tutte le furie le autorità. Il tribunale ha inasprito la pena portandola a 200 frusta­te e sei mesi di prigione. La sentenza non è stata ancora eseguita. Il destino della giovane è diventato anche un tema della campagna presidenziale Usa in quanto i candidati si sono affrettati a denunciare il suo trattamento come «barbaro» e il principe Saud al-Faisal è stato costretto, suo malgrado, a rispondere a domande ostili in occasione dei colloqui di pace sul Medio Oriente che hanno avuto luo­go ad Annapolis qualche giorno fa. L'Independent è riuscito ad entrare in possesso di una dichiarazione nella qua­le la ragazza descrive l'aggressione, le dif­ficoltà incontrate a convincere la polizia a fare qualcosa e le strazianti udienze in tribunale. Il suo dramma è iniziato con una telefonata: «Avevo un rapporto con qualcuno al telefono», ha raccontato a Human Rights Watch. «Avevamo en­trambi sedici anni. Non lo avevo mai in­contrato prima. Conoscevo solo la sua voce. Ha cominciato a minacciarmi e mi sono messa paura. Mi ha minacciato di dire alla mia famiglia del nostro rappor­to. A seguito delle minacce e proprio perché avevo paura ho accettato di dargli una mia foto». Qualche mese più tardi, ha detto la giovane, dopo che si era spo­sata con un altro uomo, ha cominciato a temere che la foto potesse essere usata in qualche modo e ha chiesto al ragazzo di restituirgliela. Il ragazzo ha accettato a condizione di poterla incontrare e di poter fare un giro in macchina con lei. La giovane, pur riluttante, ha accettato di incontrare il ragazzo in un mercato non lontano da casa sua. Stavano tornando a casa in auto, dopo aver atto un giro, quando una vettura si è fermata davanti a loro. «Ho detto al ragazzo che stava con me di non aprire la portiera, ma lui ha aperto. Li ha fatti salire. Mi sono mes­sa ad urlare». Lei e il suo accompagnato­re sono stati portati in un luogo isolato dove sono stati entrambi violentati mol­te volte. «Mi hanno costretta a scendere dall'auto», ha detto la ragazza. «Mi han­no spinto con forza. Ho urlato con quan­to fiato avevo in gola "dove mi state por­tando? Potrei essere vostra sorella". Mi hanno portato in un posto buio. Poi so­no arrivati due uomini. Il primo uomo, che era armato di coltello, mi ha violen­tato. Ero distrutta. Se avessi cercato di scappare non avrei saputo nemmeno do­ve andare. Ho cercato di respingerli, ma non ci sono riuscita. In fondo al cuore non sentivo nulla. Per due ore li ho im­plorati di portarmi a casa». Poi l'ha vio­lentata anche il secondo uomo e poi an­cora un terzo. «È stata una cosa di una violenza inaudita», ha detto la giovane. Nelle ore seguenti gli aggressori hanno detto alla ragazza che sapevano che era sposata. È stata violentata da un quarto uomo e poi da un quinto. «Il quinto mi ha scattato una foto in quelle condizio­ni. Ho tentato di coprirmi la faccia, ma me lo hanno impedito».



Sebbene la pubblica accusa avesse chie­sto il massimo della pena per i violentato­ri, il tribunale di Qatif ne ha condannati quattro ad una pena variabile da uno a cinque anni di reclusione e da 80 a 1.000 frustate. Sono stati giudicati colpevoli di sequestro di persona perché apparentemente la pubblica accusa non è riuscita a dimostrare la violenza carnale. Le immagini registrate con il cellulare sono state esibite in tribunale ma, secondo il suo av­vocato, i giudici le hanno ignorate. Il suo dramma è proseguito anche dopo il quinto stupro. Altri due uomini, uno dei quali a volto coperto, sono entrati nella stanza e l'hanno violentata. La ragazza ha chiesto più volte che ora era e le e' sta­to risposto che era l'una del mattino. Do­po, tutti e sette gli uomini sono ritornati e l'hanno violentata ancora una volta. «Poi mi hanno riportato a casa. Mi han­no portato con la loro auto. Hanno pre­so il mio cellulare e mi hanno detto che se lo avessi voluto indietro li avrei dovuti chiamare. Hanno frugato nel mio porta­foglio e hanno visto la foto di mio mari­to. Quando sono scesa dall'auto non riu­scivo nemmeno a camminare. Ho suo­nato il campanello e mia madre ha aper­to la porta. Mi ha detto "hai un'aria stan­ca". Pensava che fossi stata con mio mari­to. Per una settimana non ho toccato ci­bo. Solo acqua. Non ho detto nulla a nes­suno. Non riuscivo a dormire senza pren­dere dei sonniferi. Nel sonno vedevo le loro facce». Ai sensi della rigida interpretazione saudita della legge della sharia, le donne non possono comparire in pub­blico in compagnia di uomini che non facciano parte della loro famiglia. Inoltre spesso in Arabia Saudita le donne sono condannate alla fustigazione e persino a morte per adulterio o per altri reati. Oltre agli ostacoli presenti in un Paese nel qua­le la condizione femminile è probabil­mente la peggiore del mondo, la ragazza apparteneva anche alla minoranza sciita perseguitata, mentre i suoi aggressori era­no sunniti. Questa diversa appartenenza settaria ha giocato un ruolo decisivo nei successivi e drammatici sviluppi della vicenda. «I criminali hanno cominciato a parlare dello stupro nel mio quartiere. Pensavano che mio marito avrebbe chie­sto il divorzio. Volevano distruggere la mia reputazione. Avevo tentato di siste­mare le cose facendomi restituire la foto ed era accaduta una cosa molto peggio­re». (...). Contrariamente alle previsioni degli aggressori, il marito della ragazza non ha chiesto il divorzio quando è ve­nuto a sapere della violenza subita dalla moglie e si è rivolto alla magistratura per ottenere giustizia.


Suo marito ricorda il senso di frustrazione quando vedeva gli aggressori della moglie che se ne andavano in giro liberi. «Due dei criminali passeggiavano per il quartiere proprio davanti a me. Parteci­pavano a funerali e matrimoni. I poliziot­ti avrebbero dovuto arrestarli per rispet­to nei nostri confronti. Ho telefonato al­la polizia e ho detto, trovate una soluzio­ne. Quei banditi girano liberi per la stra­da. E se tentassero di rapirla ancora una volta?. L'agente di polizia mi ha risposto "valli a cercare e svolgi tu una indagi­ne"». Ed è quanto ha fatto. Ha telefonato quattro volte alla polizia, ma quando è iniziato il processo è continuato il dram­ma della giovane donna. «I giudici mi ur­lavano e mi insultavano. Il giudice non ha permesso a mio marito di entrare in aula con me. Il giudice mi ha dato della bugiarda perché non ricordavo bene le date. Continuavano a dire "perché sei uscita da casa? Perché non lo hai detto a tuo marito?"». «Alla seconda udienza mi hanno chiamato nella sala d'attesa nella quale mi trovavo e sono entrata in aula con mio marito. Hanno condannato al­cuni dei miei violentatori a cinque anni, altri a tre. Io pensavo che questa gente non avesse nemmeno il diritto di vivere. Pensavo che gli avrebbero dato almeno 20 anni. Pregavo perché morissero. Poi il giudice mi ha detto che mi condannava a subire 90 frustate. "Devi ringraziare Dio se non finisci in prigione". Ho chie­sto perché e mi ha risposto "lo sai bene il perché". Perché "frequentare uomini non della famiglia genera il male". Mi guardavano tutti come se fossi dalla par­te del torto. Non potevo continuare a studiare. Volevo morire». Il dramma non è finito. La «ragazza di Qatif» e suo marito hanno un futuro in­certo. La giovane è stata aggredita dal fra­tello che, stando alle voci raccolte, avrebbe tentato di ucciderla. Il suo avvocato, Al-Lahem, è convinto che potrebbe esse­re perseguita dagli estremisti sunniti e condotta dinanzi ai tribunali della sha­ria. Il modo spaventoso in cui è stata trat­tata è emblematicamente sintetizzato dalle parole del marito e dal comporta­mento dei giudici in occasione della pri­ma condanna. «Era come se fosse lei la criminale», ha ricordato il marito. «Quando i giudizi hanno pronunciato la sentenza di condanna, ho chiesto loro 'non avete alcuna dignità"?».

NOTE

The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto