giovedì 20 dicembre 2007

Per il Vaticano il malato non conta

Per il Vaticano il malato non conta
Il Riformista del 6 aprile 2007, pag. 1

di Anna Meldolesi

Fiorenza Bassoli merita i nostri migliori auguri. Dopo Pasqua la senatrice diessina dovrà trovare una sintesi tra le otto proposte di legge sul testamento biologico all’esame della Commissione sanità. Ma per riuscire a fare lo slalom tra i paletti posti dalla Chiesa avrebbe bisogno di un paio di sci miracolosi.

La scorsa settimana i commenti rilasciati a margine del convegno organizzato dalla presidenza del Senato avevano una coloritura ottimistica. Forse sono stati i toni affabili usati dal cardinale Barragan nel suo intervento, forse l’atmosfera interreligiosa che si respirava nel Convento di Santa Maria sopra Minerva. Fatto sta che il wishful thinking ha finito per contagiare i presenti, indorando l’amara pillola offerta da Barragan. Quella pillola però conteneva già in sé il messaggio di chiusura riproposto tre giorni dopo da monsignor Betori: le direttive anticipate otterranno la benedizione della Santa Sede solo se saranno svuotate di gran parte del loro significato.

Barragan ha enumerato sei condizioni che possono suonare ragionevoli solo a chi non conosce i tranelli del dibattito. Per cominciare chiede che il testamento biologico sia unito «alla decisione del medico curante di evitare sempre l’eutanasia e di rinunciare all’accanimento terapeutico». Il primo problema è ciò che la Chiesa intende con la parola eutanasia. Barragan ha spiegato che interrompere la nutrizione artificiale è un atto eutanasico. Betori ha emesso lo stesso giudizio sulla sospensione della ventilazione artificiale. Dunque, in assoluta controtendenza rispetto alle leggi sul testamento biologico approvate nel resto del mondo, in Italia il paziente non dovrebbe pronunciarsi sui trattamenti sostitutivi, quelli messi in atto per rimediare al deterioramento di funzioni complesse come la respirazione e l’alimentazione. E chissà che domani qualcuno non menzioni anche l’emodialisi. A quali terapie potremmo rinunciare, dunque?

La risposta di Barragan e Betori è: il rifiuto deve riguardare l'accanimento te­rapeutico. Ma l'insistenza sul concetto di accanimento terapeutico non è una solu­zione, anzi fa parte del problema. Come ha spiegato il francescano Daniel Sulmasy al convegno del Senato, questa espressione viene usata soltanto in Ita­lia. È entrata nel nostro lessico morale con la traduzione di un testo francese nel 1985 e non siamo più riusciti a libe­rarcene, probabilmente perché denota già una scelta di campo. Infatti mette l'accento sulle responsabilità del medi­co, anziché sull'esperienza soggettiva del paziente. Pone molto in alto lo standard al di sopra del quale è possibile sospen­dere le cure. Si concentra solo sulle sofferenze causate dal trattamento, invece di considerarle insieme a quelle della malattia stessa che viene prolungata dal trattamento. Bisognerebbe parlare inve­ce di terapie sproporzionate, includendo quelle che non funzionano, non cambiano il decorso della malattia, comportano un onere maggiore dei benefici. Qualun­que intervento medico, anche la ventila­zione o la nutrizione artificiale, può esse­re sproporzionato se così lo giudica il di­retto interessato. Perché, come ricorda Sulmasy, le persone sono diverse tra lo­ro. «Hanno differenti soglie del dolore, reagiscono in modo diverso alla sommi­nistrazione della stessa medicina, hanno diverse risorse dal punto di vista psicolo­gico, sociale, morale e spirituale. E nes­suno può capire la portata di tutti questi fattori meglio del paziente».



Le direttive anticipate di trattamento nascono per restituire la voce ai pazienti che non possono più esprimersi e servono per trasferire il potere decisionale dal me­dico al malato. Ma Betori afferma che la volontà del paziente non può venire pri­ma di quella del medico e lo stesso con­cetto riaffiora in tutte le condizioni poste da Barragan. L'ultima in particolare reci­ta così: il testamento biologico potrebbe essere lecito «se, per giudicare il caso di un accanimento terapeutico, ci si rimet­tesse al giudizio del medico o dei medi­ci curanti e al paziente bene informato, o, in caso di incoscienza di questi, al con­senso della famiglia o dei legittimi rap­presentanti del paziente e di un comita­to di bioetica, se disponibile». Ma allora che valore ha il testamento biologico? Le preferenze espresse dal malato de­vono pesare meno dell'opinione di me­dici, familiari, fiduciari, amministratori di sostegno scelti dal giudice e bioeticisti? Alla condizione numero cinque, il cardinale insiste che il «vero fiduciario» deve evitare l'accanimento terapeutico e non deve mai favorire l'eutanasia. Re­sta il dubbio su cosa intenda con l'agget­tivo «vero» e su chi potrebbe arrogarsi il diritto di dare patenti in proposito.

Se vogliamo essere onesti, insomma, dobbiamo riconoscere che la staffetta Barragan-Betori ha rappresentato una doccia fredda per quanti stanno cercando una mediazione. Se invece vogliamo sdrammatizzare, non ci resta che rileggere le dichiarazioni rilasciate da Barragan sul caso Welby, commentate ironicamente dal bioeticista Sandro Spinanti sull'ultimo numero della rivista Janus. «E giusto che su questa drammatica vicenda ci sia un approfondimento e che il ministero com­petente, prima di intervenire, chieda il pa­rere di medici, scienziati, politici, tenendo presente anche le intenzioni dei famigliali e dell'interessato», diceva il cardinale. Co­me si vede l'ordine di apparizione dei sog­getti è ancora più discutibile di quello pro­posto la scorsa settimana. Ma ieri come oggi resta un punto fermo: la volontà del paziente viene per ultima.