giovedì 20 dicembre 2007

Quell’atto di pietà chiamato eutanasia

Quell’atto di pietà chiamato eutanasia

Il Riformista del 20 dicembre 2007, pag. 1

di Carlo Troilo

Un anno fa moriva Piergiorgio Welby. Nel settembre del 2006, Welby scrisse al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano una drammatica lettera aperta che si concludeva così: «…La mia volontà, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie, è oggi nella mia mente più chiara e precisa che mai: poter ottenere l’eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi». Il presidente Napolitano rispose auspicando un confronto politico sul tema dell’eutanasia «nelle sedi più idonee, perché il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento». Malgrado l’auspicio del capo dello Stato, questo confronto politico non c’è stato, o è stato distorto dalla dura opposizione delle gerarchie ecclesiastiche e delle forze politiche che si richiamano alle direttive del Vaticano. Ora che la polemica e l’emozione sollevate dal “caso Welby” si sono stemperate col passare del tempo, ci sembra giusto e doveroso aprire finalmente un dibattito sereno sulla eutanasia.

Volendo introdurre nella legislazione italiana una norma sulla eutanasia, limitata al caso del malato terminale in piena capacità di intendere e di volere, sarebbe sufficiente una integrazione ai due commi dell’articolo 580 del codice penale (“istigazione o aiuto al suicidio”). Primo comma: «chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima»; secondo comma: «le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente (ndr: l’articolo 579, relativo all’“omicidio del consenziente”, prevede aggravanti nel caso di minorenni o persone in stato di infermità mentale). Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio».
La proposta è di aggiungere un terzo comma di questo tenore: «Il medico che aiuti un malato ad attuare la sua volontà di suicidio non è punibile se ricorrono le seguenti condizioni: la struttura ospedaliera presso cui il malato è in cura attesta per iscritto che egli non è più in condizione di ricevere cure che portino alla guarigione o anche solo a un miglioramento, per cui è da considerare malato in fase terminale; il malato, conosciuta la prognosi e nel pieno della sua capacità di intendere e volere, chiede di essere aiutato ad attuare la sua volontà di suicidio».
L’esperienza degli ultimi tempi ci ha dimostrato che le proposte di notevole latitudine e complessità, quali quelle relative alle unioni di fatto e al testamento biologico, hanno maggiori difficoltà a superare l’esame del Parlamento.
Perciò conviene proporre norme che riguardino temi specifici e circoscritti, soprattutto quando vi è motivo di ritenere che sulla proposta vi sia un largo favore della opinione pubblica (come dimostrano innumerevoli sondaggi) e che sia possibile dar vita a uno schieramento trasversale in Parlamento. Credo sia questo il caso della eutanasia, se limitata rigidamente al caso del malato terminale e compos sui. La via di una modifica al codice penale è la più semplice e la più consolidata, visto che i codici mutano - e devono mutare - con il mutare del comune sentire ed anche tenendo conto di nuovi orientamenti della magistratura sui temi in discussione, che spesso anticipano anche di anni le decisioni politiche.
Nel nostro caso, è sufficiente citare due recenti e rivoluzionarie sentenze: quella del tribunale di Roma, che ha assolto il dottor Riccio, imputato di omicidio del consenziente per aver “staccato la spina” di Piergiorgio Welby; quella della Corte di Cassazione, che ha riconosciuto fondate le richieste del padre di Eluana Englaro, da quindici anni in attesa di poter morire.
E dunque interessante ricordare - poiché siano sempre in tema di diritti civili - alcuni precedenti.
Il codice penale italiano (“codice Rocco”, dal nome del Guardasigilli dell’epoca) è stato promulgato nel 1930, in piena era fascista, e di ciò naturalmente risente. Non a caso molte norme sono state modificate nel tempo. Ricordo alcune delle più significative.
L’articolo 587 così recitava: «Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella». È quello che veniva chiamato, dopo il famoso film di Pietro Germi, il “divorzio all’italiana”. La riduzione della pena prevista rispetto ad analoghi delitti con diverso movente - riduzione che spesso giungeva alla piena assoluzione - si basava sul presupposto che l’offesa all’onore arrecata da una condotta “disonorevole” costituiva una “gravissima provocazione”, e la riparazione dell’onore non causava riprovazione sociale. La battaglia per abolire il “delitto d’onore” durò 23 anni, partendo con due sentenze di incostituzionalità della Suprema Corte del 1968 e 1969, passando per i disegni di legge del repubblicano Oronzo Reale e del socialista Giuliano Vassalli, per arrivare alla abrogazione con una legge dell’agosto 1981 (governo Forlani: quando i cattolici in politica non erano “teodem”): dunque, molti anni dopo il referendum sul divorzio del 1974 e la riforma del diritto di famiglia del 1975.
Va ricordato, in proposito, che a quei tempi vigeva ancora l’istituto del “matrimonio riparatore”, previsto dall’articolo 544 del codice penale, che prevedeva l’estinzione del reato di violenza carnale nel caso che lo stupratore di una minorenne accondiscendesse a sposarla, salvando l’onore della famiglia. Questo mostro giuridico ebbe un primo colpo nel 1965, quando una diciottenne siciliana, Franca Viola, suscitò uno scandalo clamoroso rifiutando il matrimonio riparatore offertole dal boss mafioso che l’aveva violentata. Dal gesto di coraggio di questa ragazza, passarono ben 26 anni prima di arrivare, nel 1981, alla abrogazione dell’articolo 544.
Ricordo infine - senza trascriverne il testo per ragioni di spazio - altri due articoli del codice penale relativi alla infedeltà coniugale, molto più duri nei confronti della moglie rispetto al marito. Infatti, l’articolo 559 prevedeva il reato di “adulterio” a carico della moglie che avesse tradito il marito e la puniva con la reclusione fino ad un anno (fece scalpore il caso di Giulia Occhini, che per una relazione con Fausto Coppi fu incarcerata e messa alla gogna). Invece, l’articolo 560 configurava il reato di “concubinato” a carico del marito, con pena fino a due anni, non per un tradimento occasionale ma solo a condizione che avesse tenuto una concubina “nella casa coniugale o altrove”. Solo nel 1968 e nel 1969, con due distinte sentenze, la Corte Costituzionale dichiarò costituzionalmente illegittimi questi due articoli (ormai abrogati). Un passo avanti definitivo, in questo campo, è quello compiuto ancora una volta dalla magistratura e non dai politici: nell’agosto del 2007 la Corte di Cassazione ha stabilito che chi accusa in pubblico una donna sposata di aver commesso adulterio è responsabile del reato di ingiuria e dunque penalmente perseguibile. Anche in questo caso, a suscitare indignazione e a smuovere le acque fu la definizione di “pubblici concubini” formulata dal pulpito dal vescovo di Prato Pietro Fiordelli nei confronti di due suoi parrocchiani, i coniugi Bellandi, colpevoli di aver contratto il solo matrimonio civile.
In conclusione, penso si debba avere il coraggio di dire, infrangendo un tabù, che nel caso dei malati terminali non c’è il problema di por fine a un accanimento terapeutico, perché nessuna terapia viene più praticata; non c’è nessuna spina da staccare; c’è solo la necessità di intervenire con un gesto di pietà: l’eutanasia. E la pietà - che non a caso i nostri massimi artisti, da Dante a Michelangelo, hanno sempre posto al centro della loro visione della religione - dovrebbe essere uno dei connotati più forti della Chiesa cattolica e dei credenti.